"Ci sono mani che odorano di buono", esordio di Sara Gambazza, è un romanzo di ultimi, di vite ai margini, creature disperate e stanche, a cui è rimasto poco in cui credere, e a cui la vita offre la possibilità di bucare la solitudine e far entrare la luce dalle crepe, di riscoprire la bellezza di un grazie, di un abbraccio sincero: ci si affeziona all’idea di prendersi cura degli altri, e alla bontà, quando la si incontra...
“È un formicaio il quartiere, fitto di case popolari, abitato da un campionario d’umanità che si somiglia per necessità e disperazione. Tutti uguali quelli del Cinghio, senza speranza, buoni a far niente, costretti a pensarsi con le convinzioni di chi nasce altrove, a vedersi con gli occhi di chi non sa cosa sia la miseria”.
Se vivi al Cinghio, tra casermoni di cemento e desolazione, tieni ben chiusa la porta: ci si abitua a proteggersi, a serrare fuori l’esterno, non solo da casa ma anche dal cuore. Ci sono giornate piene di fatica, di catena di montaggio, di freddo, di soldi che non bastano, di appartamenti sistemati con quello che c’è, di nostalgia per un calore lontano.
La disperazione è fatta così, chiude le porte, nei palazzi e nei sentimenti. Ci si guarda, sempre all’erta, a sbirciarsi dallo spioncino, a scrutare il parchetto davanti, dove quelli ancora più disperati portano problemi e paura.
È per questo che quando Marta vede dalla finestra una vecchia seduta sola su una panchina, la osserva con l’indifferenza di chi, sola e abituata a far da sé, non ha energia per il resto. Ma Marta è di più, è “Una che, se l’anima pesasse, spaccherebbe le bilance” e quella vecchia la guarda bene, tremante nel freddo, con la borsetta pericolosamente tenuta in grembo. Marta si infila le scarpe, la raggiunge e la porta di casa sua la spalanca, a quell’estranea piccola, con il maglioncino rosa e lo chignon in testa. Una nonna che si chiama Bambina, Bina.
Suo nipote Fabio doveva raggiungerla proprio a quella panchina, il programma di partire insieme, per vivere in Germania, dove è facile trovare lavoro, anche per Fabio, che si caccia sempre nei guai. Un appuntamento passato da ore, un’attesa lunga mentre il sole cala, Fabio non si è presentato e Bina è sola, infreddolita. Marta la accoglie, la scalda con un tè, le offre il suo letto, i gesti goffi di chi si ritrova spaccata e resa aspra dalla vita, piena di bisogni, ma in imbarazzo davanti alla fragilità di dita nodose che tremano sbottonando il cappotto: “Dai qua”.
“Marta la trovò bella, di quella bellezza che è delle cose giuste, e le venne voglia di toccarla. O forse di sorriderle”
Ci sono mani che odorano di buono di Sara Gambazza (Longanesi) è una storia di porte che si aprono e accolgono, di sguardi abituati a stare bassi che infine si alzano e sono luce che scalda, di calore stropicciato e odore di casa, di quelle domeniche di bucato che fanno stare bene, di braccia che mettono al sicuro, e di profumi che sciolgono il ghiaccio di vite solitarie.
Mentre Bina passa le sue prime giornate a casa di Marta, a fare il sugo e ad aspettare pacata il nipote, Fabio, che si è cacciato davvero nei guai, di quelli seri, suona, pestato a sangue, alla porta di Genny. Non conosce nessun altro in grado di farlo entrare in casa sua ridotto così. Genny è l’ex prostituta del quartiere, una ragazza pallida, pelle e ossa, gli occhi tristi di chi si sente sporca, ancora adesso, che ha un lavoro vero e qualche soldo da parte.
Anche lei, in quel quartiere disperato, si crede storta, sbagliata, sempre sul punto di crollare, farsi polvere. Prendersi cura di Fabio è tirare fuori una tovaglia, fare la spesa, quattro cose in offerta per una cena che fa sentire meno soli, perché anche uno ridotto così, che porta con sé solo disastri, sa riempire il vuoto, è qualcuno che la guarda in faccia, la riconosce come una persona buona.
Tendere una mano è sentire meno freddo, per i protagonisti del Cinghio: imparare ad accogliere è ritrovare qualcosa di dimenticato, messo a tacere e nascosto sotto, insieme alla sensazione che potrà andare tutto bene. Accogliere è sentirsi necessari, e per questo degni di qualcosa di più, e non figli disperati di madri alcolizzate, con sorelle fuggite via, a crescere pulendo lo schifo in casa e a nascondersi dai bulli fuori.
“La generosità è come una coperta grandissima: aggiungi un pezzo e lei scalda di più”
Questa è una storia di persone affamate di cura, con lo sguardo abbassato dalle preoccupazioni e dalle bastonate della vita: la generosità si allarga pezzo dopo pezzo, è il voler bene pulito e limpido di Beniamino, l’amico del piano di sotto, che è una vita che aspetta Marta, il suo uccellino, insicura e pasticciona, è Ljuba, che fa la badante, con i calzini colorati e una parola sempre pronta a dare sollievo, è Maurizio che ha dato un lavoro a Genny perché la riconosce, la disperazione del quartiere, che si attacca addosso.
I protagonisti di Sara Gambazza sono fatti di tenerezza impacciata, di carezze maldestre, toni aspri ma occhi buoni e imbarazzati davanti alla bellezza delle cose giuste, coperte per nascondersi dentro, e avere sonni sereni, in un misto di dolcezza, paura e speranza per fare muro insieme contro il caos, e raccogliendo i cocci altrui, mettere a posto anche i propri.
Ci sono mani che odorano di buono è un romanzo di ultimi, di vite ai margini, creature disperate e stanche, a cui è rimasto poco in cui credere, e a cui la vita offre la possibilità di bucare la solitudine e far entrare la luce dalle crepe, di riscoprire la bellezza di un grazie, di un abbraccio sincero: ci si affeziona all’idea di prendersi cura degli altri, e alla bontà, quando la si incontra. Quella di Sara Gambazza è una scrittura delicata, che sussurra e con pochi tratti fa vivere personaggi reali e commoventi, di un’umanità vera e non retorica.
“Marta storta ci viveva e aveva imparato a guardarlo con la testa piegata, il mondo. Ma la vecchia del parco l’aveva confusa: con le lumache e il profumo di soffritto e la luce in camera da letto e quelle carezze che l’avevano costretta a ricordare che c’è chi può camminare dritto, perché nel suo, di mondo, ci sono mani che odorano di buono e che ti spostano i capelli dalla faccia quando non fai che guardarti i piedi”.
Fonte: www.illibraio.it
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