“Risplendo non brucio”: Ilaria Tuti narra l’inferno della guerra

Francesca Cingoli | 30.09.2024

Con "Risplendo non brucio" Ilaria Tuti intreccia thriller e storia, tornando a parlare di guerra dopo "Come vento cucito alla terra". Con il ritmo di un romanzo poliziesco e l’oscurità di un poema gotico, il nuovo romanzo della scrittrice racconta sì il nostro abisso, ma mostra anche la strada


“Gli esseri umani soccombevano per il piacere di diavoli che si credevano angeli sterminatori”.

L’inferno di Ilaria Tuti ha il fetore del sangue, della carne bruciata e della disperazione: è un mondo fumoso e spoglio, sporco di fango e feci, pieno di scheletri, ossa che tintinnano, corpi ridotti a cumuli di viscere. L’inferno di Risplendo non brucio (Longanesi) è abitato da diavoli e fantasmi.

Johann Maria Adami era un professore rinomato, docente di traumatologia e medicina forense: lo era, prima di entrare a Dachau, per non aver piegato il capo, e per non aver esposto i simboli della morte nella sua aula, dove insegnava a preservare la vita. Non si è venduto e adesso ha quei simboli incisi sulla pelle, strazi di sangue fatti per il puro gusto perverso di infliggere sofferenza.

A Dachau, Johann non è un professore, e nemmeno un uomo: ha lasciato ogni speranza entrando, è diventato bestia, guidato da un istinto animale di conservazione, per sopravvivere a qualunque costo, annusando l’aria al di là di un recinto, leccandosi le ferite, e pensando solo alla fame.

I diavoli gli hanno tolto tutto, assassini che raccontano l’orrore come una fiaba, per suscitare paura e obbedienza: solo una cosa non gli hanno ancora levato, il suo sapere, la forza dell’intelligenza che è una fiammella nei suoi occhi, nonostante il tremito febbricitante che lo scuote in tutto il corpo, in quello che ne rimane. Negare i pensieri da essere umano, rimuovere dalla mente il proprio nome, è il modo di andare avanti di fronte alla violenza della progenie nera del Führer.

Ma anche il sapere è un bene di cui appropriarsi, come i beni trafugati, insieme ai denti d’oro. Per quel sapere, e per le sue competenze, Johann viene prelevato da Dachau e portato al castello di Kransberg. C’è stata una morte sospetta, c’è il corpo di un ufficiale tedesco da analizzare, l’ombra di un nuovo complotto mascherato da suicidio. Nessuno è in grado di scoprirlo meglio del Professor Adami, capace di indagare sui crimini di origine profonda.

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“A Johann non era mai interessato più di tanto come Caino avesse ucciso Abele, ma perché lo avesse fatto, la spinta all’annientamento, la potenza distruttiva e fratricida, il groviglio nel cuore. La genesi del male, una regione oscura dentro ciascun uomo”.

Hitler è un condottiero ormai pavido, ossessionato, spaventato dalla possibilità di un nuovo attentato, prigioniero delle sue paure e allucinazioni tra le mura del suo bunker, al punto da invocare l’aiuto di un prigioniero, di una bestia senza nome.

Johann accetta, nonostante l’enigma gli sia odioso, perché non c’è la possibilità di dire no a un diavolo delirante: a Trieste è rimasta sua figlia Ada, anche lei medico, merce di scambio del suo coinvolgimento, vittima designata di una ritorsione orribile, in un gioco psicologico dell’orrore che ha la stessa violenza delle verghe.

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“Trieste pareva un presepe addormentato sulle propaggini del Carso, ma in realtà era diventata il tempio di un nuovo culto pagano. I sacrifici di sangue al dio della guerra si compivano ogni giorno”.

 L’inferno di Ilaria Tuti ha l’oscurità della Risiera di San Sabba, un luogo di operosità trasformato in un recinto dal quale si sollevano sospiri di dolore, una ciminiera al centro di un’atmosfera maligna: anche le pietre sanno restituire il dolore degli esseri umani.

Proprio lì, dove si aggirano lupi neri, che si nutrono di sofferenza, in un buio che non ha niente a che fare con la notte, e rende vulnerabili, si spinge Ada, per guardare nella bocca di un dio malvagio, e capire quale foga bestiale può aver provocato le sevizie su tre ragazze, tra cui la sua amica Margherita.

La risiera trasuda una patina difficile da lavare via: è la sozzura di sangue e di cenere, che si attacca addosso, si respira, entra in bocca, insieme alla neve, diventa carne della carne, e non abbandona più.

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“Il mondo è da sempre un giardino dove pasteggiano bestie feroci, mein Liebes, tenute a bada da labili confini. La guerra spalanca solamente loro le porte”.

In una fabula nera tesissima, in un parallelismo pieno di inquietudine, un padre abita l’inferno che lo priva di ogni umanità ma non ne corrompe l’intento, mentre la figlia attraversa un inferno proprio dietro casa, in una città cupa e ferita. Due lotte per la sopravvivenza, due indagini dentro all’origine del male e alla deriva del compromesso, e due luoghi di vita e bellezza caduti nelle mani dell’atrocità, insieme alla natura e ai suoi panorami carsici più puri: l’inferno di Risplendo non brucio è un buco nero pieno di cadaveri, un inghiottitoio, è l’abisso della foiba, una voragine aperta e spettrale dove non ci sono volti, né nomi, c’è solo la notte dell’uomo e il suo imbarbarimento.

Ma sulle alture dell’Assia, dove si allungavano le ombre spettrali dell’odio, i piccioni sono in grado di librarsi e portare messaggi di fiducia e attesa, contatti umani preziosissimi; è lì, profonda e incrollabile, la speranza.

Con Risplendo non brucio, Ilaria Tuti intreccia thriller e storia, tornando a parlare di guerra dopo Come vento cucito alla terra, perché le guerre sono tutte orribili e “ardono ancora”: sono vicine a noi, e non sono numeri e negoziati, sono battesimi che fanno rinascere assassini, sono buio e violenza, lerciume che impregna l’anima e la svuota di ogni senso.

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“Si chiese se il sangue versato negli anfratti sarebbe mai diventato humus fecondo. Per il momento, l’unica cosa di cui era certa era che l’oppressione generava morte e la morte odio, e l’odio altra morte ancora, tingendo di nero l’anima degli uomini. Quel nero, prima o poi, si sarebbe tramutato in vergogna?”.

Con il ritmo di un romanzo poliziesco e l’oscurità di un poema gotico, Risplendo non brucio racconta il nostro abisso, ma mostra la strada.

Luceo non uro. La potenza immaginifica della scrittura di Ilaria Tuti dipinge le tenebre ma fa affiorare il bagliore tra la polvere, la cenere, i teschi del potere: in mezzo all’orrore l’animo umano può scegliere il bene, accettare l’integrità e scoprirsi capace di risplendere.

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Fonte: www.illibraio.it

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