Lo scrittore? Un serial killer

Mirko Zilahy | 25.11.2015

Il thriller fa paura? Sì, ma soprattutto a chi lo snobba... Su ilLibraio.it l'intervento di Mirko Zilahy, che compie un viaggio nel tempo letterario e dice la sua su certi snobismi nei confronti dei “romanzi di genere”. L'autore è editor e traduttore (tra gli altri, de "Il Cardellino" di Donna Tartt) e a gennaio sarà in libreria con "È così che si uccide", il suo primo romanzo...


Il concetto “romanzo di genere” mi è sempre sembrato, nelle vesti di appassionato prima e di addetto ai lavori poi, quantomeno limitante. Ma oggi, indossata la maschera dello scrittore, devo ammettere un certo fastidio nel sentirsi dire: «Hai scritto un thriller? Maddai!» Come a dire, proprio tu? Ma come? E io che ti facevo diverso, serio, migliore… Un biasimo implicito, una latente spocchia culturale che si rinnova nella domanda di chi ti chiede cosa leggi. Rispondere «thriller, noir, giallo, hard boiled» significa dichiararsi un lettore di serie B, minore, senza gusto.

Certo, l’universo romanzo è stracolmo di pregiudizi ed errori di valutazione. Dall’Alice di Lewis Carroll al Gulliver di Jonhatan Swift, che il fantasma dell’umanista ha trasformato da libri disturbanti in testi per bambini (lo è davvero anche il Pinocchio di Collodi?) al rovesciamento dell’indole oscura e universale di Joyce, operato da intellettuali e accademici sino a farne uno scrittore difficile e distante. Insomma, quello spettro aleggia ancora nelle librerie, tra giornalisti, critici e professionisti dell’editoria degli anni ‘10. Un ectoplasma che guarda alla letteratura come a una disciplina antica, alta, un’arte edificante, che insegni la patria e la famiglia, magari, roba per gente colta, dabbene. Eppure è trascorso quasi un secolo e mezzo dalle lezioni della Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, il nostrano topografo letterario che censurava Marino e il Barocco, in cerca del «vero spirito italiano».

Errori di valutazione e pregiudizi investono la produzione più attuale della narrativa nera. Troppo nera. La morte, i corpi straziati, l’indagine sul dolore fisico e psicologico in presa diretta. No, è pornografia. Mica roba seria. Ma allora uno come Leopardi, per restare alla “grande letteratura”, che tra i suoi capolavori ha scritto due spesso ignorate canzoni sepolcrali? In Sopra un bassorilievo antico sepolcrale e Sopra il ritratto di una bella donna l’iconografia della morte si confronta con i cupi canoni del preromanticismo anglosassone: il senso macabro del distacco, la lugubre cedevolezza del corpo. Però, certo, Leopardi è un poeta europeo, moderno, internazionale, mentre, ad esempio, Poe – che dall’altra parte dell’Atlantico scrive nello stesso periodo delle stesse cose e con una prospettiva simile (la poetica del vago, dell’infinito, dell’ambiguo, l’idea della poesia come effetto) – è uno scrittore di genere, del grottesco, dell’arabesco, del terrore…

È un fatto. Di fronte all’attuale successo delle varie declinazioni del romanzo nero si storce il naso, dimenticando come letteratura e morte siano da sempre andate a braccetto. Di più, per dirla con Giorgio Manganelli: «La morte assume qualità di atto fantastico quando viene irrogata ad altri o scelta per sé medesimi». Ma forse è proprio qui il punto: che la suddetta è “solo” narrativa. Un passatempo, una distrazione, sono solo storie da raccontare, mica letteratura vera, quella che nel tempo si trasforma in classico, quella che trasporta la voce del grande scrittore attraverso i secoli.

Allora il j’accuse è alla pochezza che si imputa all’entertainment, e in particolare a quello che occhieggia al macabro? O alla sciattezza di alcune penne che lo esercitano? Cosa c’è che non funziona? Che in apparenza non convince il lettore “colto”? Che ci spinge a sussurrare a mezza bocca che siamo lettori di noir, amanti delle atmosfere gotiche, collezionisti di gialli, divoratori di thriller come se fossero l’hobby inconfessabile, un atto da consumare in segreto (come la cagnetta nella novella pirandelliana La carriola?).

È il riscatto della qualità letteraria di questa morte simulata, la sua retorica, il gesto autoriale che vi sta dietro, ciò che cerchiamo?

Oggi esistono da una parte i thrilleristi (noiristi, giallisti, ecc), dall’altra scrittori che invece “usano” il genere. Nell’Ottocento inglese c’erano autori che il genere hanno contribuito a fondarlo, come Conan Doyle o Wilkie Collins; poi c’erano maestri della letteratura come Dickens che si cimentavano in modo più o meno diretto con la detection. Penne raffinate come Stevenson (Lo strano caso del dottor Jekyll e Mr. Hyde) o Wilde (un altro che ha messo al centro del suo capolavoro decadente, Il ritratto di Dorian Gray, un omicidio) che s’interrogano sui misteri della mente, del doppio, dell’ambiguità passando attraverso la morte, gli omicidi, la violenza feroce e immotivata. E sì, il vittorianesimo aveva i suoi bestselleristi. Anche qui, quelli di qualità come Bram Stoker – uno che si cimentò con il neogotico di Dracula ma che scrisse un romanzo ambientato in Egitto, Il gioiello delle sette stelle – e l’ormai dimenticata Maria Corelli, pseudonimo italoruffiano di Mary Mackay, che scriveva romanzoni popolarissimi e invisi al povero Conrad (ma in fondo Cuore di tenebra cos’è?) che si crucciava del successo commerciale di libri come I dolori di Satana.

Tornando ai grandi autori, in Italia c’è un romanzetto, Quer pasticciaccio brutto di via Merulana dell’ingegner Gadda, che alla fine degli anni Cinquanta ha cambiato la storia della letteratura nostrana. E ancora, a caso, Foscolo, Dostoevskij, Dickens, Manzoni, Stevenson, Sciascia, Eco, e tanti altri esempi a dimostrare che la letteratura va a braccetto con la morte, con la violenza, con l’ambiguità, col mistero e le paure. Ultimamente, Nicola Lagioia fresco vincitore dello Strega con La ferocia, e Donna Tartt, vincitrice del Pulitzer 2014 con Il cardellino*, hanno utilizzano percorsi e strumenti tipici della detection.

Finalmente arriviamo ai veri autori di genere. Per come la vedo io, essere uno scrittore del nero significa eleggere la grande figura letteraria della morte a fulcro dell’indagine, interna o esterna. Sceglierla e guardarla dritta in faccia. Comprenderne le cause fisiche e morali e gli effetti. «Da sempre, prima figura retorica della letteratura è l’invenzione degli dèi e dell’inferno», dice ancora Manganelli. Dare del tu a pervertiti, dementi, a caricature umane, indagare le smanie della passione, della follia, della sofferenza che incide il cuore umano. Il Male. Tra i moderni ci riesce, ad esempio, il poco conosciuto Shane Stevens, autore di Io ti troverò, un libro che non sorprende per lo stile, ma che ha una voce segreta e palpitante che lo anima capace di costruire un universo narrativo malato, spaventoso. Con il protagonista, Thomas Bishop, nasce la figura del serial killer moderno, il paradigma del Male assoluto: l’indifferenza nel procurare il male e la fragilità nella stessa mente psicotica. Nelle 800 pagine del libro si ha uno degli esempi più alti del doppio binario della detection: l’indagine, la caccia al killer e lo scavo psicologico, alla ricerca dei punti in cui si radicano le paure ataviche, la ferinità, la violenza, i blocchi dell’infanzia, le pulsioni segrete che a contatto con la “vita reale” deflagrano e che nelle menti criminali assumono una forma violenta, ritualizzata.

Per concludere, se la letteratura “nera” è questo cerimoniale blasfemo, lo scrittore “nero” cos’è? Facciamo rispondere ancora quel delinquente letterario di Giorgio Manganelli: «La letteratura non può rinunciare alla morte attiva. Non è scrittore, né fantasma letterario, chi non è macchiato di sangue proprio o altrui». La scrittura è lo strumento per assassinare la realtà, frantumarla, seviziarla e giocare con i suoi pezzi come fossero mattoncini Lego. Infine esporla sulla scena del crimine, in forma di libro, pronta a essere studiata da appassionati lettori-detective.

Attenzione, allora, perché l’assassino è lì, anche se non si vede.

Perché il serial killer è lo scrittore.

Zilahy (foto di Laura Ceccacci)
Zilahy (foto di Laura Ceccacci)

L’AUTORE – Mirko Zilahy (Roma, classe ’74), ha vissuto nel quartiere di Montesacro fino al 1983 quando si è trasferito a Latina per seguire il lavoro del padre, nefrologo presso l’ospedale Santa Maria Goretti. Dopo il liceo classico, è tornato a Roma per l’Università Lingue e Letterature straniere, dove si è laureato, dopo aver gestito un pub, con una tesi su Dracula di Bram Stoker. Si è poi spostato in Irlanda per un dottorato di ricerca sullo scrittore Giorgio Manganelli. Al Trinity College di Dublino ha lavorato insegnando lingua e letteratura italiana. In seguito, al ritorno in Italia, ha lavorato per Fazi editore come redattore-aiuto editor della straniera nella casa editrice. Nel marzo 2014 è uscito nella sua traduzione Il Cardellino* di Donna Tartt per Rizzoli (premio Pulitzer). Il mese successivo è diventato editor della narrativa straniera di Minimum Fax, per cui ora collabora come consulente. È giornalista pubblicista e collabora con il Manifesto con recensioni letterarie. Oltre alla Tartt ha tradotto autori come Bram Stoker, Roger Boylan, Peter Murphy. È cultore di Letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia. Vive nelle vicinanze del grande Gazometro con la compagna, Paola, e due figli. È appassionato di calcio, arti marziali, hard rock, birra scura e Irlanda. E il prossimo 4 gennaio sarà in libreria con Longanesi con il suo primo romanzo, È così che si uccide: sulla tavola ci sono tutti gli ingredienti di un thriller, quegli stessi ingredienti che ne hanno già fatto un piatto apprezzato a livello internazionale: una città oscura, che offre la sua faccia più torva, fatta di acciaio, ruggine e pioggia. Un assassino seriale metodico, imprendibile, di ferocia chirurgica. Un commissario di straordinaria umanità, affiancato da una squadra in cui spiccano donne di grande acume e sensibilità. Ma questa volta in cucina c’è Zilahy, che ha la capacità (letteraria) di farsi da parte e lasciare che siano i suoi personaggi – tre in particolare: il commissario Enrico Mancini, il killer senza nome e la città, Roma, anch’essa un personaggio vivo – a fare la storia. Zilahy la racconta mescolando i registri, l’alto e il basso, l’action accanto al misurato accostamento di lemmi selezionati con cura quasi ossessiva.

longanesi

Un thriller diverso dal solito, come avrete capito, quello che uscirà a gennaio. E questa riflessione scritta per ilLibraio.it lo dimostra…

Fonte: www.illibraio.it

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