L’America più arretrata raccontata da Terzani nel 1968 e le forti analogie con l’Italia di oggi

Redazione Il Libraio | 18.09.2018

Su ilLibraio.it proponiamo un capitolo dalla raccolta di reportage "In America - Cronache da un mondo in rivolta" in cui Tiziano Terzani, allora giovanissimo, racconta l'arretratezza, la rabbia e la frustrazione negli Stati dell’America del Sud. È qui che avanza il candidato Wallace, che oggi potremmo definire "populista"

Sono davvero forti le analogie con l'Italia di questi anni. Terzani scrive: "Quello che impressiona - scriveva l'autore di 'Lettere contro la guerra' - è che questa sorta di 'filosofia', trovando sempre più apparenti giustificazioni nelle condizioni del Paese e negli avvenimenti nel mondo e offrendo una elementare, ma proprio per questo più convincente visione delle cose, ha oggi un seguito che va ben al di là della regione del Sud..."


Nel 1966, un giovanissimo Tiziano Terzani ha già messo le prime basi della sua avventura di giornalista e viaggiatore: un lavoro per l’Olivetti che gli permette di girare il mondo e gli dà la possibilità di scrivere i primi articoli per l’Astrolabio, settimanale della sinistra indipendente diretto da Ferruccio Parri.

Inquieto per temperamento, Terzani vuole però realizzare il suo sogno di ragazzo e fare il reporter a tempo pieno. Così, l’anno successivo, coglie al volo l’occasione di una borsa di studio per un master alla Columbia University, si dimette dall’Olivetti e s’imbarca a Genova con la moglie Angela, per scoprire gli Stati Uniti e poterli finalmente raccontare.

Come scoprirà il lettore nella densa prefazione di Angela Terzani Staude, saranno due anni molto intensi, vissuti prima a New York, poi in California, dove Tiziano comincia a studiare il cinese alla Stanford University, e per il resto del tempo in un viaggio attraverso “la pancia dell’America” – come Tiziano chiamava gli stati interni del Midwest e del Deep South. Ma sarà anche un periodo in cui, in un continuo alternarsi di entusiasmi e delusioni, si riveleranno in tutta la loro forza i conflitti generazionali e politici del ’68 destinati di lì a poco a travolgere l’intero Occidente.

Come racconterà in seguito nella Fine è il mio inizio: “Quando partii per l’America Parri mi disse ’Ti prego, scrivi, ne sarò felicissimo’. E io per due anni ogni settimana ho scritto sull’America, sulle elezioni, sui negri, sulla protesta contro la guerra in Vietnam, la marcia su Washington e gli assassinii di Robert Kennedy e Martin Luther King”.

Proprio questi reportage inediti, corredati di fotografie dell’archivio familiare, sono stati raccolti da Àlen Loreti nel volume In America – Cronache da un mondo in rivolta (Longanesi).

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo qui di seguito un estratto dal libro, un testo di grande attualità, in cui non mancano le analogie con l’Italia di oggi.
Il brano è stato letto lo scorso 14 settembre, a Firenze, a Palazzo Vecchio, nel Salone dei Cinquecento, nel corso dell’incontro per ricordare Terzani a 80 anni dalla nascita.
Alla serata, condotta da Raffaele Palumbo, hanno preso parte Angela Terzani Staude, Àlen Loreti e il sindaco Dario Nardella. Le musiche di Francesco Nigri, la voce di Susan Gagliano, le letture di Monica Bauco, Folco e Saskia Terzani hanno accompagnato la proiezione di immagini inedite di Terzani negli Stati Uniti.

 

«L’America è oggi un fenomeno politico, militare e sociale che non ha precedenti nella storia dell’umanità per la sua potenza, per la sua incommensurabile capacità distruttiva. Il suo più grande pericolo è la sua sofisticazione. Il sistema è oggi così ben oleato e calibrato che sopporta qualsiasi parvenza di opposizione e si può permettere le immagini pubblicitarie che fanno il tuo bucato più bianco del mio. La rivoluzione dei negri, le proteste dei giovani appartengono alla fisiologia del sistema e non c’è da sperare che venga da loro la soluzione.» Tiziano confessa a De Maio le sue preoccupazioni che trovano conferma nel viaggio a New Orleans. Qui assiste allo show dell’ex governatore dell’Alabama George Wallace, l’outsider in corsa alle presidenziali, il cui programma a favore della segregazione razziale raccoglie un enorme consenso negli Stati del sud.

Wallace: se divento presidente

22 settembre 1968

New Orleans

Nel resto dell’America gli Stati del Sud come l’Alabama, la Georgia, la Louisiana e il Mississipi sono considerati un mondo a sé. Capita di essere sconsigliati dal visitarli perché è facile averci dei guai con la polizia e la gente del luogo; molti si contentano di dire che quella del Sud è gente all’antica che non s’è mossa con i tempi ed è rimasta con la mentalità della Guerra civile. Anche politicamente gli Stati del Sud sono ormai considerati una causa persa e la vittoria a novembre di Wallace in questa parte del Paese è data quasi unanimemente per scontata.

Arrivandoci, non è che le cose abbiano un aspetto diverso o che quelle considerazioni si dimostrino false. Solo, la realtà è più impressionante di quanto appaia nelle constatazioni sull’arretratezza culturale del Sud e nella matematica elettorale secondo la quale i due maggiori partiti scrivono ormai gli Stati della Confederazione nella colonna delle perdite. Non sono le file di macchine sulle autostrade con la targhetta «Wallace alla presidenza nel 1968»; o i grandi cartelli all’ingresso delle varie città con la scritta «la verità
è la nostra unica arma», firmati dalla John Birch Society; o la visione degli affari nazionali e internazionali che viene dagli editoriali dei giornali locali; o le storie sempre più circostanziate delle varie organizzazioni fasciste, come il Ku Klux Klan o i Minutemen, gli uni intesi a impedire l’integrazione razziale, gli altri armati, addestrati e indottrinati a fare un colpo di mano al momento in cui la pretesa congiura comunista tenterà di sovvertire il Paese.

Quello che veramente impaurisce è la completezza, il senso, la sempre crescente appetibilità di questa «filosofia» fascista che viene prodotta nel Sud, è il fatto che essa si vada concretizzando sempre più in organizzazione politica, e che abbia oggi un candidato alla presidenza con il quale i due maggiori contendenti debbono fare i conti. Quello che impressiona è che questa sorta di «filosofia», trovando sempre più apparenti giustificazioni nelle condizioni del Paese e negli avvenimenti nel mondo e offrendo una elementare, ma proprio per questo più convincente visione delle cose, ha oggi un seguito che va ben al di là della regione del Sud e dei suoi Stati, dove era nata con motivazioni e argomentazioni locali e comunque con rilevanza limitata.

Se divento presidente. «Se divento presidente chiamo tutta quella banda di burocrati di Washington e butto le loro cartelle nelle acque del Potomac», è una battuta che ripete continuamente e che attira sempre più applausi. «Il popolo è stanco di tutti i guai creati da questi supereducati signori nelle torri d’avorio, con le teste a pera, che arricciano il naso guardando dall’alto in basso a me e voi! », Wallace si presenta come il candidato dei semplici e semplice è la sua grammatica, il suo ragionare e il suo humour. A un ragazzo dai capelli lunghi che gli chiedeva quanto tempo darebbe ai dissidenti per lasciare il Paese se diventasse presidente ha risposto: «Due giorni, signora». Mentre i due partiti nazionali, avendo intuito la virata a destra del sentimento popolare, tentano di far concessioni in questo senso, pur dovendo all’interno fare poi i conti con le ali più progressiste (i repubblicani con le forze di Rockefeller e i democratici con i seguaci di McCarthy al cui appoggio non possono ancora rinunciare), Wallace, libero da freni ideologici e pudori di demagogia, attira sempre più folle e sempre più voti «dicendo alla gente quello che la gente vuol sentire».

Il Paese è frustrato dalla guerra, dai riots, dalle dimostrazioni; è moralmente disturbato dalle argomentazioni dei McCarthisti e dei pacifisti, ossessionato dalle diagnosi che vogliono questa società profondamente malata e non trova che in Wallace una risposta ottimista, non solo nella analisi dei problemi («la colpa è tutta dei comunisti e degli intellettuali»), ma anche nelle soluzioni («bisogna usare tutti i mezzi che questa società ha a sua disposizione e questi mezzi ci sono»). A New Orleans, rivolto a un gruppo di poliziotti, ha detto: «Bisognerebbe dare in mano il Paese a voi per un paio di anni per raddrizzargli la schiena». A chi lo accusa di voler creare uno Stato di polizia risponde: «Che c’è di male se questo significa impedire che si brucino le case, che si saccheggino i negozi, che si organizzino delle dimostrazioni
comuniste?»

America perbene. Fra tutti i candidati che hanno preteso in questa battaglia elettorale di voler rappresentare l’America dimenticata – Kennedy quella dei poveri e dei negri, Nixon quella dei «sobborghi » come lui l’ha definita – anche Wallace ha la sua America dimenticata da rappresentare, ed e` quella dei più («siamo più noi di loro»), l’America «della gente decente» che non brucia cartoline precetto, che non dimostra, che non dissente, la cui unica preoccupazione è condurre una vita tranquilla, sicura nella propria casa e nelle strade della città. Mentre i candidati dei due partiti maggiori si dibattono spesso nei bizantinismi verbali e finiscono spesso per apparire simili in una campagna che a volte raggiunge toni da operetta (come ad esempio quando Humphrey ha previsto il ritiro dei primi contingenti americani dal Vietnam
entro la fine dell’anno e Johnson poche ore dopo ha dichiarato che questo era impossibile, o come quando Agnew ha detto che Humphrey era «tenero nei confronti dei comunisti» e poi è stato costretto dai boss del suo stesso partito a ritirare l’accusa e a scusarsi); mentre l’amministrazione è sempre più esposta per la questione del Vietnam e in questi giorni anche per gli sviluppi dell’affare della Pueblo, Wallace riesce a presentare la sua causa come quella della vera opposizione, non solo a tutto quello che è successo nella politica americana degli ultimi anni, ma a tutto quello che presumibilmente succederebbe sia con una nuova amministrazione democratica che con una repubblicana. Le tendenze a destra sono latenti da tempo e recentemente più numerosi sono stati gli episodi in cui sono venute a galla, non solo negli Stati del Sud, dove il fatto che queste posizioni siano da tempo istituzionalizzate e ormai scontate non le rende meno scandalose e meno assurde. A Berkeley nelle scorse settimane, in seguito ad alcune manifestazioni organizzate dagli hippies e dalla New Left, è stato invocato lo stato di emergenza, è stato dichiarato il coprifuoco, e ora non solo nelle strade di Berkeley, ma nello stesso campus dell’università è illegale fermarsi a discutere dopo le otto di sera.

Gli incidenti di Chicago sono diventati il centro di una grossa campagna contro la stampa e la televisione che avrebbero dato loro un’importanza maggiore di quella reale e la Commissione per le Attività Antiamericane, un’eredità della caccia alle streghe del periodo maccartista, è stata incaricata di un’inchiesta per accertare in quale misura ci siano state fra i dimostranti infiltrazioni comuniste, e Ford, il capo del gruppo repubblicano della Camera, ha chiesto di perseguire i tre leader delle manifestazioni sulla base di una recente legge che definisce «un crimine federale il passare il confine fra due Stati per incitare un riot». Varie inchieste condotte fra la popolazione americana indicano che la stragrande maggioranza ha approvato il comportamento della polizia durante la Convenzione di Chicago e il sindaco Daley sta uscendo da questa storia con tutti gli onori.

I valori americani. Tutto questo non è sorprendente. Basta uscire dalle grandi città come New York e San Francisco per rendersi conto che c’è tutta un’America di «gente decente», di piccoli proprietari, di impiegati, di agricoltori, di guidatori di taxi, di donne di casa, di colletti blu, per i quali la guerra è un affare lontano che dimostra solo la bellicosità del comunismo internazionale, per i quali i guai qui nell’America stessa son provocati da quelli che vogliono solo la sua distruzione. E’ un’America di gente decente le cui preoccupazioni non sono – e in buona fede – in termini di razza o di libertà, ma in termini di proprietà privata da proteggere e di sicurezza personale da garantire e che sente violati i propri diritti dallo strapotere del governo centrale che può imporle un negro come vicino di casa o trasportare un figlio in una scuola integrata, e sente altrettanto violati i propri principi di decenza religiosa e morale dalle idee che i giovani, gli intellettuali, le università sembrano produrre, mettendo a repentaglio «i valori americani».

Tutto questo non è solo del sud. Qui può impressionare il contatto totale con questa società dove la segregazione, giuridicamente
abolita, è ancora largamente praticata; può impressionare il fatto che questa «filosofia» è qui un dato scontato; ciò che impaurisce è che essa, con tutte le sue implicazioni, marci oggi a grandi passi nelle menti di molti americani con conseguenze che non si possono misurare con le percentuali delle inchieste demoscopiche o il numero dei voti elettorali.

Wallace non vincerà certo le elezioni, e può anche darsi che non riesca, come lui spera di fare, a negare la vittoria a uno dei maggiori candidati. Ma che le sue idee, che lui certo non ha inventate, perché nascono dal cuore stesso di gran parte della società americana, facciano la loro strada è molto probabile. E che con esse non tocchi solo ai ribelli americani e ai vietnamiti fare i conti, è sicuro.

PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA
Longanesi & C. © 2018 – Milano
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

 

Fonte: www.illibraio.it

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