“Che male c’è” di Marco Giangrande, polifonia del tempo perduto

Francesca Cingoli | 15.09.2022

Adolescente nei primi anni Ottanta nel quartiere Mergellina, in una famiglia della Napoli alto-borghese senza problemi, Zez, protagonsta di "Che male c’è", esordio di Marco Giangrande, è un ragazzo come tanti, brufoli in faccia e un pallone Super Santos per sfogarsi in strada a giocare con gli amici. Il libro è una polifonia del tempo perduto, che racconta la formazione di un giovane in un momento di benessere, che non negava opportunità e apriva le porte all’intraprendenza. Un'opera che fa del tempo della memoria un racconto umoristico e malinconico


“Io non riuscivo a guardarmi allo specchio, mi vedevo brutto, sgraziato, del tutto inadeguato al mondo femminile che mi circondava e che, considerata la tempesta ormonale cui ero sottoposto dalla natura, desideravo più di ogni altra cosa al mondo”.

A Napoli tutti hanno un nomignolo, che una volta affibbiato non si leva più: Francesco Giuliani è per tutti o Zezo, un galantuomo.

Adolescente nei primi anni Ottanta nel quartiere Mergellina, in una famiglia della Napoli alto-borghese senza problemi, Zez è un ragazzo come tanti, brufoli in faccia e un pallone Super Santos per sfogarsi in strada a giocare con gli amici, in mancanza di coetanee da pomiciare.

È una giovinezza sociale non ancora social, dove si indicono riunioni prima di una gita scolastica per valutare le possibilità reali con le ragazze, lo sfilatino prosciutto crudo e fiordilatte è la merenda monumentale, si va in vespa allo stadio, e la propria inadeguatezza è tanto condivisa quando scontata.

Sfigati e consapevoli di esserlo, Zez e i suoi amici si consolano con i fritti di Pasqualino, un’istituzione del quartiere, e con le avventure di tutti i giorni.

Che male c’è di Marco Giangrande (Longanesi) è una polifonia del tempo perduto che racconta la formazione di un ragazzo cresciuto in una buona famiglia, dall’adolescenza all’età adulta, in un momento di benessere che non negava opportunità e apriva le porte all’intraprendenza.

Ispirato da un momento drammatico della vita dell’autore, questo romanzo è un inno alla vita pieno di verità, malinconia e tenerezza ironica, un continuum di episodi e personaggi, ricordi di giovinezza che regalano serenità, e che si amalgamano in un monologo, costruito nel solco segnato da La Capria, raccontato con un risultato variegato e digressivo.

Zez è l’amico spiritoso, sensibile e entusiasta che quando inizia a raccontare non si ferma più, e infila aneddoti, ricette di cucina, storie di conventi, avventure di sesso, Ciro Ferrara e Pino Daniele, lezioni sullo champagne o sulle rane, insieme agli indirizzi per la miglior pizza al trancio di Napoli. E questo fiume di racconti, uno concatenato all’altro, è puro piacere, è vita, che parla napoletano, francese, padano e americano, ha il gusto della zuppa di pesce di Gemma, inizia con la voce stridula ma garbata di Massimo Troisi e termina su un balcone milanese, con le parole di George Bernard Shaw.

Un viaggio nella crescita, attraverso le esperienze e i cambiamenti ma con capisaldi sicuri. Il padre Luigi, glaciale, manager IBM con autista, un uomo tutto d’un pezzo, intransigente, economista marxista votato a un angosciante senso del dovere; la madre Marisa, la cucina nel cuore, le cime di rapa in borsa, pronta a dare lezioni a tutta la compagnia di Zez su come impilare la parmigiana sul piatto per farci stare tutto un buffet. È una famiglia sana e rigorosa, che si muove sulla base dei trasferimenti lavorativi di Luigi, con progetti di vita già disegnati per Francesco. Non trattabili.

Invece per il protagonista arriva il momento in cui tutto sta stretto, anche la disponibilità di soldi, anche la comodità della casa, e scardinare la porta della gabbia dorata per imparare a sopravvivere diventa un’urgenza, anche se uno strappo.

“Dovevo riappropriarmi della mia vita. Era giunto il momento di rinunciare alla comfort zone della cameretta con vista su Capri e della paghetta di papà, trovare una strada tutta mia, rendermi economicamente indipendente e andare a vivere da solo. L’università poteva aspettare”.

Giangrande regala episodi gustosi al limite del rocambolesco, come il periodo da militare a Napoli, quando l’inseguimento di un fuggiasco dalla caserma perde interesse e vigore di fronte alla prospettiva di un calzone ricotta e ciccioli, la partita a basket rivelatasi una truffa, con una squadra ingozzata a tradimento di cibo e alcol e poi incapace di giocare, o come l’avventura estiva con il WWF, al seguito di una bella ragazza sexy e idealista, che lascia Zez stremato da massacranti camminate in cui si rivela non all’altezza della situazione. Sono pagine riuscite, divertenti e piene di realismo.

Superati i problemi di identità dell’adolescenza, e gestito il distacco dalla famiglia, è nel lavoro che Francesco trova il suo cosmo di affermazione, in una piccola compagnia aerea, dove mette a frutto la sua creatività, la sua empatia e la sua risorsa più preziosa, gli amici. Perché dovunque vada, è la rete delle amicizie che lo accoglie, si stringe attorno a lui, e da amici di pallone o di banco si diventa colleghi, sempre complici. L’amicizia: quel filo che si riannoda in un attimo, in una telefonata, in un incontro che annulla le distanze di anni. Gli amici veri sono lì, nel punto stesso in cui li hai lasciati, a fare un altro pezzo di strada insieme.

Il viaggio della maturazione non è solo metaforico perché il protagonista si muove, va a Parigi, vive in una mansarda che diventa una base di relazioni e conoscenze: Delphine, Monsieur Maurice Arnaud, Marcello, il libraio di Nervi, Jean Cortez, il marsigliese. Ci sono le visite dei genitori, Luigi, con il suo sguardo di ghiaccio ma il cuore aperto di orgoglio per il percorso del figlio, Marisa, pronta a cucinare per riempire il poco spazio dell’odore del cibo di casa, facendo inorridire i vicini. Quella parigina, più di altre, è l’esperienza che lascia Zez ferito a morte di malinconia, innamorato di una bellezza struggente.

“Mamma entrò nella mansarda, ripulita e tirata a lucido e si guardò intorno, abbastanza compiaciuta. Poi esclamò: «Bello l’ingresso».
«L’ingresso?»
«Meh, mò fammi vedere il resto.»
«Ehm, mamma, il resto non c’è. La casa è tutta qui.»”

Il viaggio dell’eroe Zez è un vorticoso insieme di incontri sentimentali, amori che non sono mai Amore, ma sono ragazze per soffrire i primi dolori, e poi scoprire, imparare lezioni amare, spendere cifre folli per notti magiche senza futuro, prendere schiaffi o masticare illusione. Ambra, Agata, Ludovica, Marianna, Samy, Eliana, sono destinate a passare, a lasciare il posto a quella giusta, un sentore di Opium, un fruscio alle spalle e le parole che segnano l’inizio dell’amore, finalmente. Il suo nome è Beatrice.

L’esordio di Marco Giangrande, salentino di nascita, napoletano di formazione, fa del tempo della memoria un racconto umoristico e malinconico: se come diceva George Bernard Shaw, un’intera vita di felicità è insopportabile, avere una buona storia da raccontare, e qualcuno a cui raccontarla sono uno spazio di benessere che ci salva, liberandoci dalla tristezza dell’età adulta, grazie alle immagini spensierate di una generazione nei suoi anni più belli.

“Poi prendevamo le Vespe, salivamo sul belvedere a via Orazio e con una Nastro Azzurro in mano contemplavamo, satolli e soddisfatti, il profilo inconfondibile di Napoli, cantando a squarciagola il nostro inno:
Curnutone ca pe’ sta via mo te ne vai,
nun chiagnere pe’ st’ammore
a chella nun ce penzà.
(Squallor, 1981)”

Fonte: www.illibraio.it

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