"La mia narrativa ruota attorno ad alcune paure e ogni mio libro è il tentativo di affrontarle da un punto di vista diverso per ricavarne nuove verità". Chiara Gamberale torna con "Qualcosa" (romanzo illustrato da Tuono Pettinato) e si racconta a tutto campo con ilLibraio.it. Si parla, tra le altre cose, di grandi autori come Calvino, di stili letterari, di iperconnessione nell'era dei social ("ero caduta nel vortice del controllare ossessivamente cosa la gente scrivesse di me sul web. Sentivo che c’era un pericolo e mi sono curata con Proust..."), di difetti ("detesto la frustrazione in letteratura e non solo. Il risentimento è una delle cose che mi fa più paura nella vita"), di libri che possono aiutare chi li legge, ma anche chi li scrive ("Sono la mia prima paziente") e di molto altro ancora...
La protagonista è una principessa. Si chiama Qualcosa di Troppo e vive in un regno popolato da Cavalier Niente, Qualcosa di Importante, Una di Noi, Ragazzini Abbastanza. Eppure forse mai come nel suo nuovo romanzo, Qualcosa (Longanesi) Chiara Gamberale ritrae la società di oggi e va al cuore dei sentimenti più profondi che abitano l’uomo: l’amore, la morte, l’amicizia, la rassegnazione, il bisogno di sentirsi parte di “qualcosa” – una relazione, una famiglia, un social network (lo Smorfialibro) – e di riempire quello spazio vuoto che ognuno porta dentro di sé. Il pericolo è riempirlo con le cose e le persone sbagliate. Grazie alle illustrazioni di Tuono Pettinato, uno dei più apprezzati fumettisti del panorama italiano, il nuovo atteso libro dell’autrice di Arrivano i pagliacci e Avrò cura di te (scritto a quattro mani con Massimo Gramellini) si rivela un’educazione sentimentale che affianca alla leggerezza calviniana il respiro del classico. Un testo che non manca di denunciare i rischi che i richiami delle sirene del “troppo”, quelli di una società iperconnessa in cui Madama Noia è bandita, possono ingannare fatalmente anche i più volenterosi. Ed ecco che nel silenzio terapeutico di un buon libro e nella scoperta autentica di sé può avvenire la vera epifania: “È il puro fatto di stare al mondo la vera avventura”. ilLibraio.it ne ha parlato con Chiara Gamberale.
Qualcosa è la sua nuova avventura, anche dal punto di vista formale e stilistico. Come è nata?
“Io cambio sempre. Quello che non cambia sono le mie ossessioni. Tutti i libri di un autore si parlano. Ed è quello che io cerco in uno scrittore. Non mi fido di chi prima scrive un giallo, poi un romanzo d’amore e poi prova con l’auto-fiction: ma qual è la sua vera urgenza? Senza dubbio la mia narrativa ruota attorno ad alcune paure e ogni mio libro è il tentativo di affrontarle da un punto di vista diverso per ricavarne nuove verità”.
Qual è la sua urgenza?
“Ho esordito con il tema dell’anoressia e già allora il tema pieno-vuoto era presente. Da quando avevo 18 anni tutti i miei personaggi sono ‘Qualcosa di Troppo’: io racconto sempre di uomini e donne che necessitano di raggiungere un equilibrio. Ma mai come in questo romanzo ho deciso di non mascherare questa urgenza dietro all’amore o ad altro. L’ho presa di petto, affrontandola dal punto di vista della nostra esistenza e di quel buco che abbiamo nel cuore”.
E ha scelto una forma inedita contaminata con le illustrazioni…
“Fin dall’adolescenza coltivavo il desiderio di scrivere qualcosa alla Calvino, un universo completamente immaginato da me, in cui potessi inserire le mie domande. Dopo di che mi sono detta che sarebbe stato bello dialogare con un illustratore. Mi ero innamorata di Tuono Pettinato, della sua vena poetica, grazie a una raccolta in cui c’era anche Zerocalcare. Poi l’ho ritrovato su Internazionale e leggendo Nevermind sulla vita di Kurt Cobain, mi ha davvero strappato il cuore. Così l’ho chiamato e lui si è messo a disposizione. È un vero artista”.
foto di Laura Penna
Come si è articolata la vostra collaborazione?
“Ho iniziato a scrivere pensando alle illustrazioni. Gli ho consegnato il testo e lui l’ha corredato, ma non si è limitato a seguire le mie indicazioni. Essendo anche un autore, ha risposto ad alcune sollecitazioni e ad altre no, per cui è iniziato un dialogo. La scrittura a sua volta si è sintonizzata sulle sue proposte. Ne è venuto fuori qualcosa che, nonostante sia ambientato in un regno che non c’è, affronta problemi umani troppo umani”.
In Qualcosa si percepisce la volontà di andare all’essenza, al cuore di quelli che sono i personaggi dei suoi romanzi, a partire dai nomi. Forse l’operazione più difficile per uno scrittore: avere la profondità di un classico, un senso di universalità.
“È vero ed è stato faticosissimo perché io ho la testa piena di parole e di pensieri. Mi sveglio la mattina con un’orchestra stonata nella testa. Ho lavorato molto per raggiungere una scrittura che avesse a che fare col classico, cioè con qualcosa in grado di restare. Per questo pensavo a Calvino, a Saint-Exupéry. Non a caso nell’edizione Feltrinelli ho curato la prefazione. E poi Pinocchio: lo adoro. In un corso molto interessante di psicanalisi e letteratura con Stefano Ferrari, si sottolineava quanto lo stile sia terapeutico per l’umore. Per me che sono un tipo ansioso, racchiudere tutta la mia urgenza in uno stile che abbia poche parole e pochi nomi è stata una grandissima sfida dal punto di vista letterario. La protagonista si chiama Qualcosa di Troppo, suo padre il re, Qualcosa di Importante. Solo col loro nome ti ho già detto chi sono”.
Uno stile molto diverso da quello di Adesso, il suo precedente romanzo…
“Sì, venivo da un testo nevrotico come Adesso, un romanzo sul momento, su cosa diventiamo in un attimo fatale e la scrittura era a servizio di quella brachicardia. E invece Qualcosa è un romanzo su ‘che cosa siamo oggi e sempre’ e la scrittura doveva mettersi a servizio di questo respiro”.
Ciò che la contraddistingue è la capacità di creare empatia con i suoi lettori, non solo con i fedelissimi, ma anche con chi la legge per la prima volta e che si rispecchia nelle sue storie.
“Questo è l’aspetto più commuovente della mia vita. Il fatto di scoprire che non sei sola. Ero circondata da Ragazzini Abbastanza e invece sapere che fuori c’erano tanti Qualcosa di Troppo che hanno le tue stesse domande e devono gestire le stesse invasioni da parte delle emozioni, per me è il riconoscimento più grande. Alle presentazioni è bello sentire dai lettori quei ‘grazie, perché mi hai fatto sentire meno solo’, e non immaginano quanto piacere mi faccia saperlo. Quando ho scritto Le luci nelle case degli altri in molti mi hanno detto che si erano posti gli stessi quesiti. Quando ti senti solo pensi di essere l’unico a vivere questa condizione. Grazie ai miei romanzi ho scoperto che almeno non sei il solo a sentirti così”.
In Qualcosa affronta anche il tema della necessità di disconnettersi da una società dove il maggior passatempo dei ragazzi è tuffarsi in Smorfialibro, alias Facebook. Quanto è importante oggi riappropriarsi di sé a prescindere dal sé virtuale?
“Rispondo con questo (e ci mostra il suo cellulare modello basic). Perfino io che non possiedo uno smartphone e cerco di difendermi da questi strumenti, non sono stata indenne dal caderci. Può succedere in tanti modi, persino senza accorgersene. Essendo una persona compulsiva mi sono tenuta a distanza dai social network. Eppure, come raccontavo qualche mese fa in un pezzo per La Stampa ci sono cascata anch’io. Credo in generale sia un problema enorme”.
E questo disagio emerge nel libro.
“Sì, in questo romanzo, che è sui nostri sempiterni impedimenti, l’amore e la morte, c’è qualcosa che, a proposito di pieno e di vuoto, ha a che fare proprio con l’oggi, cioè i social network. Questo è un mondo in cui paradossalmente la società sembra venirci incontro rispetto al vuoto. In realtà ci sta dando solo dei falsi amici, dei tranelli. Quante persone dopo la fine di una relazione studiano il profilo Facebook dell’ex partner? Come se si potesse davvero capire qualcosa di una persona da lì. E il rischio è quello che arrivi a convincerti che la tua stessa identità sia quella del tuo profilo virtuale. E cosa accade nei due momenti cruciali della vita, quando muore qualcuno di caro o ci si innamora, nei momenti dunque dei grandi dolori e delle grandi felicità? Se non ti conosci, sono esperienze che ti frantumano e non possono nemmeno arricchirti. Spero di aver dato un allarme con questo romanzo. Senza comunque dimenticare l’ironia”.
Una delle soluzioni proposte dal libro può essere quella del silenzio come suggerisce il Cavalier Niente. Oppure, come scriveva in quell’articolo che menzionava, “regalatevi Proust e vi toglierete le ansie del web”. A proposito di tempo perduto e ritrovato…
“Esatto. Ero caduta nel vortice del controllare ossessivamente cosa la gente scrivesse di me sul web. Sentivo che c’era un pericolo e mi sono curata con Proust, aiutata dal fatto che la mia vita è divisa in due: quella in cui scrivo in isole fuori dal mondo e anche dalla gente, in cui la connessione funziona malissimo; e quello in cui sono in Italia con le mie relazioni e le mie presentazioni. Il mio rischio è quello di essere sommersa dagli altri, come in un movimento di sistole e diastole, niente o troppo. Ho approfittato questa estate, quando sono stata nell’isola di Milos per scrivere Qualcosa, per iniziare la mia terapia d’urto: leggere i sette volumi della Recherche”.
Una scelta impegnativa.
“Internet su di me toglie molta concentrazione. Così ho approfittato della poca connessione dell’isola per ritrovarla. Se non sei concentrata Proust è tosto. Eppure vince lui, perché è troppo potente. Ti tira una fune e ti porta dove gli pare. E la soddisfazione di arrivare alla fine del settimo è ineguagliabile. È un’avventura che consiglio. Anche in quelle parti che risultano noiose, sei comunque tra parole bellissime… Sei in un mondo giusto”.
A proposito di Proust, quali autori sta leggendo e consiglia?
“Adesso vorrei parlare con tutti di Proust, è un po’ difficile pensare ad altro. La vegetariana di Han Kang mi è piaciuta. E poi un libro bellissimo per Iperborea, Fair Play, la storia di una scrittrice finlandese, autrice dei Mumin, e della sua storia d’amore con la compagna durata 50 anni. Un manuale per capire come passare dall’innamoramento allo stare insieme con una grazia e una profondità bellissime”.
Nella raccolta di racconti I difetti fondamentali (Rizzoli), Luca Ricci tratteggia 14 ritratti di diverse tipologie di scrittori: il rothiano, il rifiutato, l’invidioso e così via. Lei quale teme di più?
“Detesto la frustrazione in letteratura e non solo. Il risentimento è una delle cose che mi fa più paura nella vita”.
E che spesso trova sfogo, aldilà degli scrittori, proprio sul web.
“Innanzitutto sono convinta che per navigare su internet o avere un account sui social network, bisognerebbe fare un test di educazione civica e frustrazione. Occorrerebbe avere una patente. Se ne sentono di tutti i colori: il caso di Tiziana Cantone ad esempio mi ha scioccata. E sono preoccupata per le nuove generazioni”.
Cosa la spaventa in particolare?
“Da piccola passavo ore intere del pomeriggio dal portiere. I miei lavoravano entrambi. E in quei pomeriggi mi annoiavo, avevo paura, mi concentravo. Provavo insomma sentimenti, anche negativi, ma di cui tutti abbiamo bisogno. Ed è nella guardiola di quel portiere che ho scritto il mio primo romanzo. Avevo 7 anni e mezzo: Chiara e Riky e Chiara e Riky crescono, influenzata palesemente da Piccole Donne. A volte mi chiedo: se fossi nata oggi, sarei riuscita a concentrarmi così tanto da iniziare a scrivere? Oppure sarei stata distratta da tutto questo ‘troppo’ che ci circonda? Ecco perché ho scritto questo romanzo in due direzioni, cioè guardando dentro l’essere umano, che è fatto così, e poi all’esterno, con questa società che non lo aiuta. Apparentemente sembra farlo, ma in realtà lo mette più a rischio”.
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Un messaggio trasversale, ma che può essere ancora più incisivo per i ragazzi. E non è un caso che il ricavato di questo libro andrà a Casa Oz, l’associazione che si occupa dei bambini che incontrano la malattia e delle loro famiglie.
“Era la cosa giusta. Da un anno, quando vengo chiamata dalle scuole, anziché presentare il mio libro, vado a fare educazione sentimentale. Penso che noi scrittori abbiamo una missione, politica e culturale. Quindi faccio spegnere loro il cellulare per quelle tre ore, pretendo che abbiano letto il libro – anche tramite fotocopie, non è un problema – ma è necessario, altrimenti risulta una perdita di tempo. E poi giochiamo con i temi del libro. Con Adesso abbiamo fatto un laboratorio sulle paure e sui desideri. Son emersi gli spunti più disparati. Con Qualcosa mi potrò sbizzarrire con un nuovo laboratorio sul vuoto e su come lo si può riempire”.
“La vita è una bottiglia” esclama ad un certo punto Qualcosa di Troppo. Ma “se non fai pace con lo spazio vuoto dentro di te, niente potrà mai davvero riempirti” suggerisce il Cavalier Niente.
“È così. Spesso crediamo di riempirci degli altri, ma in realtà è tutto involuto e narcisista”.
I suoi libri hanno sempre un risvolto pragmatico. Pensiamo a Per dieci minuti, al curriculum sentimentale in Adesso, alle parole illustrate di Qualcosa che sono un autentico monito…
“Sono la mia prima paziente. Mi ha fatto sorridere sentire un prete dirmi che in confessione invitava i suoi fedeli a recitare tre Ave Maria e a leggere Per dieci minuti. Ormai è entrato nelle terapie psicanalitiche. È un libro che ha superato i confini della letteratura ed è entrato nella vita vera”.
Perché secondo lei?
“Perché i lettori hanno sentito che c’era un’esperienza vera dentro. Io l’avevo provato per tutti. Non avevo deciso di scriverne un libro, ma il decimo giorno di quell’esperimento mi sono detta: ‘I lettori hanno condiviso con me tanti loro guai; per una volta ecco una soluzione'”.
L’idea è di applicare nella propria vita i consigli dei suoi libri, già testati su se stessa.
“Sì è vero, in tutti i miei romanzi c’è sempre un momento in cui dopo aver parlato di qualcosa, c’è un invito al fare. In Qualcosa è un invito a non fare nulla. Nella mia vita mi sono dovuta salvare e ho scoperto che anche tanti miei lettori lo hanno fatto. Interrogarmi su quello che avevo detto o scritto non doveva rimanere un passatempo intellettuale, era questione di vita e di morte. Una volta capito, occorre realizzarlo nella vita pratica, facendo o, in questo caso, non facendo nulla”.
Fonte: www.illibraio.it
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