"Un racconto iniziatico, ma è anche, e soprattutto, un gioco...".
"La storia infinita", come racconta su ilLibraio.it la scrittrice Ilaria Gaspari, è un libro che in un modo sotterraneo e segreto smuove ancora oggi qualcosa in chi lo legge. L'autore, Michael Ende, si ribellò sempre ai tentativi di imbrigliare la sua poetica. Visse una vita inquieta, ostinandosi a remare controcorrente con quell’autentico, testardo, tedeschissimo spirito d’avventura, di cui solo una parola per l’appunto tedesca è capace di conservare la bellezza: "Wanderlust", lo struggimento randagio del vagabondare
La storia infinita, pubblicato per la prima volta nel 1979 (e in Italia nel 1981), è un libro che sembra, insieme, nuovo di zecca e antichissimo.
Qualcuno potrebbe dire: certo, è proprio questo a definire i classici, e in effetti ormai il romanzone di Michael Ende la fama di essere un vero e proprio classico della letteratura per ragazzi se l’è guadagnata. Non senza difficoltà, però: il libro, che apparve nel settembre 1979 e incontrò un immediato, inaspettato, enorme successo di pubblico, fece storcere parecchio il naso alla critica. Erano anni complicati, la Germania era divisa in due, e da un romanzo per bambini si tendeva ad aspettarsi il famigerato messaggio: la formula, la morale, l’ammonimento strettamente pedagogico, che come una buona cura ricostituente sapesse rinforzare le acerbe menti dei lettori, che le rinsaldasse fornendo qualche verità, semplice e incrollabile, in cui credere, qualche corroborante certezza cui far riferimento mentre si diventa grandi, proprio come un graticcio di ferro offre a un giovane rampicante lo schema da seguire per assumere la forma che chi ha costruito il graticcio ha previsto che debba assumere il rampicante una volta cresciuto.
Ma Michael Ende fu un autore estroso e ribelle ai tentativi di imbrigliare la sua poetica. Visse una vita inquieta, ostinandosi a remare controcorrente con quell’autentico, testardo, tedeschissimo spirito d’avventura, di cui solo una parola per l’appunto tedesca è capace di conservare la bellezza: Wanderlust, lo struggimento randagio del vagabondare, in cui rivive e si rinnova la smania selvatica, panteista e tempestosa del primo romanticismo, che dopotutto nacque fra poeti e pensatori poco più che ragazzi. Anche Goethe fu giovane e meno imparruccato di come siamo abituati a immaginarlo, ma questa è un’altra questione.
Il fatto è che La storia infinita è un libro evidentemente refrattario ad assolvere una funzione pedagogica chiara, precisa e prescrittiva, e per fortuna: in questo sta la sua bellezza. Perché, se così non fosse, ne rimarrebbe solo uno sterile inno all’importanza di leggere e di usare la fantasia, con l’astratto richiamo normativo che rende noiosi, inutili e arcigni gli ammonimenti degli adulti ai ragazzini (e agli altri adulti) che di leggere o di usare la fantasia, per vari motivi del cui novero probabilmente fanno parte anche quegli stessi ammonimenti, non hanno proprio nessuna voglia.
Io, per esempio, lo leggo per la prima volta adesso, da adulta: da bambina avevo solo visto il film, meravigliosamente kitsch, che ne trasse nell’84 Wolfgang Petersen, e che nelle lunghe estati degli anni ’90 doveva venir trasmesso con una certa regolarità, perché ho il ricordo di averlo visto a più riprese, con la frustrazione di non riuscire mai a guardarlo tutto per intero. D’altra parte, quando si è piccoli capita di essere spediti a letto presto persino nelle più lunghe sere d’estate; e se le interruzioni pubblicitarie ti costringono a piantare un film a metà quando scocca l’ora del coprifuoco, pazienza, non c’è capriccio che tenga. Così, credo di non aver mai saputo, da bambina, come finisse La storia infinita; in compenso ho il preciso ricordo di aver sognato di cavalcare per il cielo un gigantesco Drago della Fortuna, come avevo visto fare, nel film, solo ad Atreiu (che poi toccasse anche a Bastiano di certo lo immaginavo, ma lo vedo solo ora che posso stare alzata quanto mi pare: perché succede proprio verso la fine). Era un bel sogno, comunque, e mi risarciva la mancata visione del finale: i film che sembrano sogni sognati da bambini hanno anche questo potere, di infilarsi davvero, senza sembrare fuori luogo, nei sogni dei bambini.
Il libro lo leggo solo oggi, oggi che ho visto il film per intero, e ho letto delle critiche negative di cui fu bersaglio all’epoca, e pure sorriso delle risposte impermalite e un po’ infantili con cui Ende accolse quei giudizi prima di decidere di lavarsene le mani. La prima cosa che penso, leggendolo, è che bisogna ben essere miopi per non vedere che, come i veri classici (quelli per bambini, quelli per adulti, e quelli che preferisco, che sono accidentalmente classici per adulti e per bambini insieme), questo è un libro che in un modo sotterraneo e segreto smuove qualcosa in chi lo legge. In questo senso, sì, è pedagogico. E, in questo senso, è un libro che fa venire a chi inizia a leggerlo la voglia di arrivare in fondo alle sue oltre 400 pagine. La storia infinita è un romanzo di formazione: non racconta però la storia di un ragazzino che cresce e impara ad adattarsi al mondo, che si scava un posto nella società. Racconta una storia ben più antica e misteriosa, quella di un’avventura interiore, di un viaggio affrontato in solitudine: di un’iniziazione.
Dentro, c’è l’avventura romantica di un ragazzino solitario, Bastiano Baldassarre Bucci, che inizia in un negozio di antiquariato che pare preso di peso da un racconto di Hoffmann, e finisce con una rinascita. C’è un libro magico, che somiglia in tutto e per tutto al libro che chi legge la Storia infinita ha tra le mani (in occasione del quarantennale, è in libreria l’edizione speciale Longanesi, ndr): la copertina è la stessa descritta nel romanzo, ed è la stessa anche la stampa a due colori, verde acqua e rosso. Perché questo libro è una chiave, la chiave per passare dal solito mondo che conosciamo, quello della scuola, della noia, dei padri che dicono cosa fare e cosa non fare – quello raccontato a caratteri rossi – al mondo fantastico, tutto verde acqua, quello che grazie al libro magico si spalanca di fronte a Bastiano.
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C’è una mitologia tutta inventata, su cui si fonda il pericolante, fascinoso regno di Fantàsia, minacciato dal misterioso avanzare del Nulla: una mitologia tessuta con allegro sincretismo, con un gusto infantile e avventuroso per l’esotico, distillando il piacere di cercare le verità meno evidenti, di trasformare i concetti più complessi, proprio quelli su cui la filosofia tedesca si è lambiccata nei suoi secoli d’oro, in immagini vivide, in personaggi petulanti e affettuosi. E non c’è, in questa mitologia che spunta da ogni riga, rigogliosa e robusta come i boschi di Fantàsia, che crescono a dismisura solo a immaginarli, nulla di manicheo, nulla di rigido; non ci sono le opposizioni meccaniche e un po’ inerti fra bene e male che danno spesso al fantasy quel retrogusto reazionario e legnoso.
C’è invece una regina, anzi un’Infanta Imperatrice, che ha qualcosa della divinità e qualcosa della madre perduta di Bastiano: perché in questo libro c’è molto di perturbante, c’è molto della vita, e c’è, dunque, anche la morte.
È un racconto iniziatico, ma è anche, e soprattutto, un gioco: scritto da un autore che non vuole dire né ai suoi personaggi né ai suoi lettori quello che devono fare (leggete! crescete!) ma che al contrario vuole giocare con loro. E ci riesce; riesce a coinvolgere chi apre il libro in un gioco che, incidentalmente, si gioca leggendo. Ci riesce, perché per farlo non ha bisogno di accattivarsi i suoi piccoli lettori, di convincerli subdolamente a seguirlo.
Semplicemente, senza sotterfugi, si inventa un libro che, nel momento stesso in cui lo si legge, si trasforma in una magia, nell’accesso a un mondo segreto, in un’avventura: e non come slogan, motto o modo di dire, ma proprio letteralmente. Ende non ha nessun bisogno di ricorrere a trucchetti, né di gettare sui suoi lettori bambini incantesimi da pifferaio magico. Non ne ha bisogno perché non li vuole condurre a loro insaputa in qualche direzione precisa, nemmeno per il loro bene: vuole solo giocare con loro, e vuole giocarci perché si sente uno di loro. Se così non fosse, sarebbe piuttosto difficile spiegarsi come sia possibile che si sia tanto arrabbiato per il film di Petersen, contro cui intentò addirittura una causa, che perse; o che avesse chiesto all’editore, che possiamo immaginarci sgomento, di pubblicare il romanzo come fosse stato un libro di magia, con copertina di cuoio, e bottoni di ottone e madreperla. Solo i bambini possono essere così gelosi, e così sfacciatamente esibizionisti della propria immaginazione. I bambini, e i grandi artisti. E Michael Ende è stato di sicuro un grande scrittore, e probabilmente ha avuto il privilegio e la condanna di rimanere, molto a lungo, un bambino, e di scoprire che le creature straordinarie che popolano Fantàsia e che tessono miti e leggende, quando finiscono nel mondo degli uomini sono destinate a essere chiamate menzogne. Ma, per fortuna, c’è anche chi sa percorrere la strada all’inverso, chi sa entrare davvero nelle storie, e farle vivere, mentre le inventa e le legge.
L’AUTRICE – Ilaria Gaspari, scrittrice, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Dal 2015 collaboratrice deilLibraio.it, scrive per diverse testate e collabora con radio, tv e scuole di scrittura. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno), Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni. Nel 2022 per Giulio Perrone editore è uscito A Berlino – Con Ingeborg Bachmann nella città divisa. Con Emons, (e con il sostegno dell’Institut Français Italia), sempre nel 2022, ha curato e condotto il podcast Chez Proust. Per la collana digitale Quanti di Einaudi ha inoltre pubblicato il saggio breve Cenerentole e sorellastre – Una botanica della bellezza.
Fonte: www.illibraio.it
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