Tra i monumenti, classici o barocchi, le piazze, le chiese, gli obelischi e le rovine imperiali, Roma conserva un tratto bucolico, quello dei suoi parchi. Qui però la città cela anche la sua anima sinistra, popolata di ombre e presenze capaci d’innescare malesseri e inquietudini... Su ilLibraio.it il reportage dello scrittore Mirko Zilahy, che torna in libreria con il thriller "La forma del buio"
Scrivere thriller per me vuol dire innanzitutto creare un’atmosfera. I maestri che ho letto e che ho cari mi hanno insegnato a utilizzare una prospettiva profonda e obliqua sui luoghi che descrivo. Perciò ho deciso di raccontare l’area postindustriale descritta in È così che si uccide, che comprende lo scheletro del grande Gazometro e il vecchio mattatoio di Testaccio, e poi di esplorare la Roma più verde e apparentemente luminosa – ma dove c’è luce si annidano le ombre – in La forma del buio. In entrambi i casi il mio sguardo, per una sorta di deformazione letteraria, indaga in cerca di storie sinistre tra gli angoli bui e spaventosi che la capitale nasconde dove meno ce lo si aspetta.
Tra i monumenti, classici o barocchi, le piazze, le chiese, gli obelischi e le rovine imperiali, Roma infatti conserva un tratto bucolico, quello dei suoi parchi. Aree da sempre destinate allo svago, Villa Borghese, Villa Torlonia, Villa Ada, l’immensa villa Pamphili e le loro sorelle minori oggi vivono racchiuse, costrette, fra le arterie sbuffanti del traffico capitolino. Ognuno di questi trenta parchi nasconde un segreto, un luogo celato, bizzarro, fuori dal mondo. Querce, platani ed eucalipti, fontane monumentali, templi, chalet, steli, meridiane ed orologi ad acqua, questo luogo fantastico sorge nel cuore ansante della capitale ma sembra uscito dalle mirabolanti pagine di Lewis Carroll.
Eppure, anche tra questi magici scorci campestri, Roma cela la sua anima sinistra, popolata di ombre e presenze capaci d’innescare malesseri e inquietudini. E così all’inizio della via Nomentana, nascosta da un muro di palme, c’è villa Torlonia, antica dimora rurale dei Colonna passata poi alla famiglia di cui conserva il nome attuale. Un’ampia scalinata precede la sagoma candida, il profilo severo e squadrato, del Casino Nobile sotto cui il duce fece scavare un bunker antiaereo. Ma è tra colonne, le tribune e i viali di breccia, oltre un boschetto di platani e lecci, che sorge un edificio fuori dal tempo. Lo scabro manufatto rurale anticamente denominato la “Capanna svizzera” all’inizio del Novecento ha subito modifiche strutturali e decorative che l’hanno mutata in una residenza stipata di logge e porticati, colonne e minuscole torri. Le finestre si sono arricchite di chiassose vetrate liberty e i tetti hanno accolto l’ardesia e le maioliche decorate. L’interno è un sistema di nicchie e passaggi, labirinti d’improbabili incastri esplosi dalle matite di Escher e Piranesi. La magia dei colori nei temi esoterici delle decorazioni, delle vetrate, nei motivi geometrici, floreali, nei cigni, nelle rondini e nei pavoni. Negli affreschi, sulle colonne e sulle finestre appaiono le civette, regine del mondo infero che danno il nome di Casina delle civette. Occhi giallo-verdi da chiaroveggenti, gli ambigui sguardi di cristallo scrutano i misteri all’interno mentre fuori penetrano l’oscurità della notte.
Tra porta Pinciana, i Parioli e piazza del Popolo si estendono gli ottanta ettari di bellezze boschive e collinari, vallette e giardini segreti di Villa Borghese. Dall’alba al tramonto i romani fanno jogging, organizzano picnic, praticano yoga e sonnecchiano tra il fogliame di larici e cipressi mentre i turisti attendono in fila per entrare nella Galleria Borghese e perdersi fra tele e marmi di Bernini, Canova, Raffaello, Tiziano e Caravaggio. Fuori, a poche centinaia di metri dal museo, s’incrocia lo sguardo petroso dei felini che dalla facciata d’ingresso al Giardino Zoologico minacciano quanti si accostano. Un parco d’incubi e sogni immaginato dall’architetto-scenografo Moritz Lehmann come una città bestiale di fossati e canali, edifici moreschi e laghi artificiali. Alle spalle dello zoo, oltre i cancelli nord, a vegliare il sonno delle belve smarrite, il Museo di Zoologia attende paziente il corso del tempo e l’inesorabile morsa della noia. Attende che l’impagliatore trasformi la materia di quegli sguardi sconfitti nell’indifferenza di tanti occhi di vetro.
Nel comparto sud della città, dove sorge l’esangue quartiere dell’Eur, e al contempo in un territorio della memoria infantile attiguo a quello del Giardino zoologico, c’è il Luneur, il defunto luna park di Roma. Accanto al giardino degli Eucalipti oggi si trova un luogo di divertimento recuperato e messo a nuovo a simulare una rassicurante atmosfera fanciullesca. Il grande parco divertimenti della capitale, il più antico d’Italia, fondato nel 1953, è ormai solo un ricordo, un’impressione dolce e spaventosa. Perché allora, negli anni Settanta e Ottanta, quello era il regno dell’impossibile, un universo straniante con le sue allegre giostre ammiccanti e la sensazione che fossero lì per catturarti. Un’atmosfera da Paese dei Balocchi ove il tempo è fermo e l’odore del ghiaccio secco, le ciambelle fritte e le mele caramellate, i giochi, le tetre scenografie e i pupazzi mostruosi sussurrano parole ambigue.
Ogni visita al Luneur aveva il sapore d’un’avventura. Dietro ogni allestimento scenico si celava infatti una meravigliosa minaccia, un’irresistibile sfida con se stessi, il panico nella casa degli specchi, le vertigini sull’Himalaya o l’informe terrore della casa stregata? Dell’infanzia lì dentro aleggiavano soltanto i fantasmi più neri e tutto concorreva a insidiare le certezze che avevo. Cos’era reale e cosa no? Non l’ho mai capito davvero, ma quando la domenica sera uscivo dai cancelli del vecchio Luneur per tornare a casa provavo un misto di sollievo e di nostalgia lasciandomi alle spalle quel mondo clandestino, arcaico e grottesco con i suoi sinistri connotati magici.
L’AUTORE – Mirko Zilahy ha conseguito un Phd presso il Trinity College di Dublino, dove ha insegnato lingua e letteratura italiana. Collabora con il Corriere della Sera ed è stato editor per minimum fax, nonché traduttore letterario dall’inglese (ha tradotto, tra gli altri, il premio Pulitzer 2014 Il cardellino, di Donna Tartt). È così che si uccide, il romanzo con cui ha esordito nel 2016 facendo conoscere ai lettori il personaggio di Enrico Mancini, è stato un successo di pubblico e di critica ed è uscito nei principali Paesi esteri, fra cui Germania, Spagna e Francia. È ora arrivo in libreria per Longanesi con un secondo thriller letterario del commissario Mancini: La forma del buio.
Fonte: www.illibraio.it
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