Dopo il successo di "Fai piano quando torni", Silvia Truzzi torna in libreria con "Il cielo sbagliato", che ci porta a Mantova, città in cui l’autrice è nata. Con il ritmo e l’intensità di un moderno romanzo storico, narra tre decenni di vita di provincia, dal punto di vista di due donne nate con un’incolmabile differenza sociale. Una storia di emancipazione, che ruota attorno al senso delle proprie origini
La sfortuna di nascere femmine: una figlia porta solo guai, se si è povera gente, perché servono braccia per lavorare, e i maschi valgono di più. Una figlia femmina è una merce di scambio, se si è gente agiata, per un titolo che porta lustro, per risanare le finanze, per guadagnare gradini nella scala sociale. Se si nasce in una casa accogliente, con cibo caldo e fuoco acceso, si deve studiare, imparare ricamo, musica, tutto il repertorio che, con una dote, consenta di essere piazzata bene, in un matrimonio conveniente. Altrimenti il destino è diventare una dama di compagnia, zitella e serva di lusso.
Non si sceglie dove venire al mondo: un lavoro da sguattera è di gran lunga preferibile al morire di fame, e per Dora è una fortuna essere salvata dalle angherie della nonna, lasciare le botte e la miseria del vicolo dove è nata, l’11 novembre del 1918, giorno dell’armistizio, per entrare a servizio dei Benedini, ricchissima famiglia di commercianti.
Anche se tra gli agi, una donna è destinata a obbedire, chinare la testa, persino di fronte alle umiliazioni. E per Irene, che è nata lo stesso giorno di Dora, la sorte ha portato una vita di benessere e il titolo di marchesa, che le garantirà un matrimonio con un ragazzo ricco ma arrogante, più interessato ai vizi che alla consorte, mortificata nella solitudine e nel tradimento. Insomma, meglio nascere conigli che femmine, diceva un proverbio del tempo.
“So da dove vieni.”
Il cielo sbagliato di Silvia Truzzi (Longanesi) racconta, con il ritmo e l’intensità di un romanzo storico, tre decenni di vita di provincia, dal punto di vista di due donne nate con un’incolmabile differenza sociale, una vicenda di emancipazione in una Mantova di incantevole bellezza.
Dora cresce insieme alle figlie dei Benedini, con gli abiti smessi da loro ma con la possibilità di studiare, e con la sensazione di essere al sicuro. Nessuno la costringerà più a chiedere l’elemosina, nessuna la chiamerà più Vienna, perché stracciona come i bambini che arrivano da lì. Giorno dopo giorno Dora sente attenuare dentro di sé il costante pericolo di tornare a fare la fame, si abbandona al calore dell’accoglienza, senza mai liberarsi dal senso pressante della vergogna di essere stata una mendicante.
“E allora capisce che deve farsi sentire, perché le persone che non fanno rumore non esistono. E non hanno diritto alle bambole, ai camini accesi, agli abbracci. Infila il naso nel collo del padrone, chiude gli occhi e assapora un lungo momento di dolcezza clandestina.”
La sua bellezza, che crescendo diventa sempre più evidente, sembra quasi una minaccia, che la può mettere nelle grinfie di qualche bellimbusto. La nota persino il Vate, in una serata al Vittoriale, che le rivela la forza del suo fascino, la porta ad abbassare la guardia e a nutrire l’ambizione. Anche se le viene sempre intimato di ricordarsi da dove viene, Dora sogna di poter essere un giorno una signora, come quelle dei telefoni bianchi del cinematografo, e di liberarsi dei ricordi e del suo passato di “figlia di nessuno”. La verità è che Dora e Irene, nate sotto lo stesso segno, rappresentano due destini diversi accomunati della medesima sostanza, essere donne subordinate, “mogli di qualcuno”, non importa se per doti di casata o di bellezza.
“È un brav’uomo e si prenderà cura di lei, le darà tutto quello che ha sempre sognato e le chiederà poco in cambio. Non è il massimo a cui una donna può aspirare? E soprattutto: non è il massimo per una donna come lei, destinata a fare la cameriera o la mendicante?”
Il senso delle proprie origini è il tema intorno a cui ruota la storia di Silvia Truzzi: marchio incancellabile, destino evitato, ma anche debito di amore e nostalgia. Lo si sente nelle belle pagine in cui gli spazi di Mantova, città di origine dell’autrice, diventano protagonisti, con i palazzi, gli affreschi, gli scorci delle piazze invase dalle persone e dai barachìn. Lo si assapora nelle ricette della tradizione, nel bussolano e nel chisòl che hanno il profumo di un abbraccio e di un porto sicuro per Dora, nei tortèi sguasaròt che arrivano direttamente dai Gonzaga nella cucina accogliente della cuoca Rosa.
Il romanzo di Silvia Truzzi è un atto d’amore verso Mantova, la bella città piena di meraviglie, che progressivamente viene lordata, e da teatro di splendore diventa teatro di terrore.
È il momento della fascistizzazione, una “cavalcata nera” che coinvolge tutti o quasi i notabili della città, porta ricatto, violenza, arroganza, e la consapevolezza che di origini si può morire.
Appassionato tributo alle donne che fanno rumore, Il cielo sbagliato è emozionante come un romanzo storico, di cui sfrutta le caratteristiche, con una scrittura fresca e ironica, che non conosce le pesantezze antiquate di genere: è invece moderno e potente nel descrivere una figura di eroina che ha l’audacia di immaginare un suo mondo al di là della figura maschile, di descriversi anche al di fuori di una relazione e di un matrimonio, e di prendere in mano il suo destino senza accettare la prepotenza delle convenzioni e la strada già segnata dalla propria nascita.
Dopo Fai piano quando torni, quella di Dora e Irene è una nuova storia di coraggio e di amicizia, di tempi passati, ma di problemi sempre attuali: sono donne che corrono coi lupi, ma in abito di mussola, orgogliose e forti sotto un cielo sbagliato.
Fonte: www.illibraio.it
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