Veterano decorato e croce di bronzo al valore militare, Elliot Ackerman, in libreria con "Il buio al crocevia", si racconta con ilLibraio.it e parla del conflitto siriano, del suo nuovo romanzo, "un viaggio attraverso la disillusione", e della guerra, "che aggiunge intensità alle esperienze umane"... - L'intervista
Dopo il romanzo d’esordio Prima che torni la pioggia, torna in libreria lo scrittore e giornalista statunitense Elliot Ackerman, veterano decorato per la seconda battaglia di Falluja, ufficiale di diverse operazioni speciali e croce di bronzo al valore militare. L’autore, che i conflitti li ha vissuti sulla propria pelle, affronta nuovamente il tema della guerra nel nuovo libro, Il buio al crocevia (Longanesi, traduzione di Katia Bagnoli), che tratta del conflitto siriano.
Protagonista de Il buio al crocevia è Haris Abadi, arabo americano che ha partecipato come interprete alla guerra in Iraq. Haris raggiunge il confine tra la Siria e la Turchia con tutte le intenzioni di unirsi alla guerra contro il regime di Assad. Tutte le sue convinzioni, però, finiranno col crollare dopo l’incontro con un carismatico rifugiato siriano. L’uomo, di nome Amir, è un rivoluzionario deluso, mentre la moglie, la bellissima Daphne, farebbe di tutto per tornare in Siria: sarà lei a mettere in crisi le decisioni di Haris, dando al suo viaggio un nuovo scopo.
Il buio al crocevia è un romanzo attuale, che rappresenta le sfaccettature e le conseguenze umane di un conflitto che sta dilaniando il Medio Oriente, raccontato dalla penna di un giornalista che segue in prima persona la guerra civile siriana, come freelance: i suoi saggi e articoli sono apparsi su The New Yorker, The Atlantic, The New Republic e The New York Times Magazine. ilLibraio.it ha incontrato l’autore per parlare del suo nuovo romanzo e della sua esperienza nella Turchia contemporanea.
Ackerman, il protagonista del suo romanzo, dopo essersi lasciato alle spalle la guerra in Iraq, sceglie di tornare a combattere, in Siria: cosa spinge un uomo a cercare nuovamente la guerra, dopo averla lasciata?
“All’inizio del romanzo Haris è un uomo che, dopo la guerra in Iraq, ha provato a integrarsi negli Stati Uniti, ma non ci è riuscito e, quando anche la sorella lo abbandona, lui si ritrova a tornare verso quello che conosce: la guerra. È una cosa frequente, molte persone che conosco, dopo aver combattuto in Iraq e in Afghanistan, scelgono di andare in Siria per continuare a combattere. Probabilmente la guerra ha qualcosa di seducente”.
In che senso?
“Un episodio che mi è sempre piaciuto della mitologia greca è quello di Ulisse che deve superare le sirene e vuole ascoltarne il canto, tappa le orecchie dei compagni con della cera d’api e si fa legare all’albero della nave per poterle ascoltare. Quando sente il loro canto, le sirene non gli promettono la pace e l’amore, ma gli promettono la gloria della guerra. È questo il tipo di seduzione a cui mi riferisco”.
Eppure nel suo libro la guerra si presenta come una causa che ha deluso le aspettative dei rivoluzionari.
“Questo è un tema centrale del libro: è meglio aggrapparsi alla speranza, per quanto sia un’illusione, o è meglio accettare la sconfitta e abbandonare la causa in cui si credeva? Per me quella domanda ha cominciato a delinearsi passando del tempo al confine siriano”.
Come mai?
“Ho conosciuto diversi rivoluzionari, andavamo a cena insieme e parlavamo di politica tutta la sera; loro dicevano spesso che, se solo l’America fosse intervenuta, la rivoluzione avrebbero ancora potuto avere successo”.
Lei era d’accordo?
“Ascoltavo in silenzio e, alla fine del pasto, dopo il caffè, quella stessa persona diceva di rimpiangere tutto: la rivoluzione, la guerra, avrebbe voluto che non fosse mai cominciata, pur di avere ancora una casa a cui tornare. Era questo che volevo raccontare”.
Essere combattuti tra la speranza e la resa.
“Esatto. Ma come si racconta la storia di quel conflitto interiore, di quell’esperienza, del cuore che si spezza? Io ci ho provato con Amir e Daphne: lui era un rivoluzionario, ma ormai non vede altro che distruzione, mentre lei non riesce ad abbandonare la speranza”.
In questo senso, è significativo che l’unico personaggio a mantenere viva la speranza sia Daphne, che la guerra non l’ha mai vissuta veramente.
“Daphne è una donna, non ha visto la guerra con i suoi occhi, non quanto Amir e Haris; ma soprattutto non ha visto la figlia morire e quindi non riesce ad accettarne la morte, non può elaborare il lutto e sente un forte bisogno di tornare in Siria a cercarla, sebbene la sua speranza sia completamente irrazionale”.
Haris, invece, è un personaggio molto combattuto: non è disilluso quanto Amir, ma non è fermo nelle sue convinzioni.
“Credo che all’inizio del libro Haris sia soprattutto confuso: pensa di sapere a che punto si trova, ma non lo sa veramente, si è perso. Nel corso del romanzo, passa dall’avere un obiettivo molto generico e vago a trasformarlo in qualcosa di specifico e chiaro: si può dire che lui, letteralmente, non scopra qual è il suo scopo fino alla fine del libro…”.
Quindi il libro è un viaggio verso la consapevolezza?
“Direi che il libro è un viaggio attraverso la disillusione, per scoprire che il suo fine era essere accanto a questa donna, che fino a poco tempo prima era un’estranea”.
In questo caso si può dire che sia proprio la guerra a creare legami tanto forti in così breve tempo.
“Assolutamente, la guerra aggiunge intensità alle esperienze umane”.
È una sensazione che ha vissuto in prima persona?
“Io e diverse persone che conosco: la guerra aggiunge un significato alle relazioni e alle esperienze, una sensazione di intensità fuori dal comune. Ho conosciuto persone che dicono di avere nostalgia della guerra, ma quello che intendono concretamente non è una nostalgia della violenza o del rischiare la vita ogni giorno: quello che gli manca è l’intensità che la guerra porta nelle esperienze e nelle relazioni umane”.
È da queste esperienze che ha tratto l’ispirazione per scrivere Il buio al crocevia?
“Anche: i singoli eventi e le linee della storia sono pura fiction, ma per me un romanzo ha sempre inizio da un evento specifico, in questo caso è stata la scena al confine siriano, la battaglia in cui è coinvolto anche Azaz. Quella è molto simile a una scena cui ho realmente assistito, una battaglia che ho visto con i miei occhi”.
Ha tratto ispirazione da un fatto reale.
“Ho cominciato a descrivere quell’episodio, per poi inventare e costruire intorno a quel momento il resto della storia. Per me è come avanzare a tentoni, brancolare nel buio: la storia è già lì e, se sei fortunato, si rivela da sola, i personaggi prendono vita, diventa ovvio cosa farebbero e pian piano la storia cresce e si dipana. È il mio processo creativo”.
Come è passato dall’essere un soldato a fare lo scrittore?
“È una domanda che mi viene fatta spesso, me lo chiedono come se ci fosse qualcosa di strano, ma in realtà c’è una grande tradizione di combattenti e soldati che siano stati anche scrittori, Ernest Hemingway è solo un esempio tra molti”.
È anche il suo caso?
“Sono cresciuto in mezzo ai libri perché mia madre è una scrittrice e all’Università ho studiato Storia e Letteratura. Alla fine credo fosse naturale che diventassi uno scrittore”.
Tornando al libro, un episodio che mi ha molto colpito è quel passo in cui un combattente dello Stato Islamico, per avvalorare le proprie convinzioni, cita nello stesso contesto il Corano e Albert Einstein.
“Quello, in particolare, è un episodio che mi è realmente capitato”.
In che occasione?
“Da giornalista ho avuto la possibilità di incontrare un combattente di Al Quaeda e, ritenendo che potesse essere interessante, ho deciso di incontrarlo; ci siamo visti in un caffè e abbiamo passato molto tempo insieme. Mentre parlavamo prendevo appunti e, a un certo punto, quest’uomo cominciò a spiegarmi la sua visione delle cose…”.
La sua ‘visione’?
“Intendo dire che prese a parlarmi del settimo giorno, dell’arrivo del Mahdi e di tutte queste credenze apocalittiche che io non condivido, tanto che smisi di prendere appunti e lui si offese. Si offese e mi disse che anche Albert Einstein aveva predetto che le cose sarebbero andate così: aveva annunciato che la terza guerra mondiale sarebbe stata una guerra nucleare, ma che la quarta sarebbe stata vinta con le pietre e i bastoni. Mi disse che loro, in Iraq, ci avevano sconfitto così, con pietre e bastoni. È un episodio che ho voluto mettere nel libro”.
Lei cosa ne pensa di questa interpretazione delle parole di Einstein?
“Io, personalmente, non crederò mai in queste sciocchezze sull’apocalisse, che invece sono molto forti e diffuse nello Stato Islamico: queste, per me, sono differenze inconciliabili. Eppure, allo stesso tempo, ho passato ore a parlare con quell’uomo e abbiamo scoperto di avere moltissimo in comune”.
Per esempio?
“Mentre parlavamo della guerra in Iraq ci siamo resi conto di aver combattuto nelle stesse zone e di aver preso parte alle stessa battaglie: tutti e due sapevamo bene cosa significava essere stati lì, essere stati giovani e aver preso parte a quella guerra. Ne abbiamo parlato a lungo e, in questo senso, avevamo moltissimo in comune”.
Sebbene aveste combattuto l’uno contro l’altro, si può dire che avevate qualcosa che vi legava?
“Assolutamente: per tutti e due noi quella è stata la guerra che ha definito le nostre vite e per via di questo potevamo capirci mentre, per esempio, l’interprete che era lì con noi, non avrebbe mai potuto comprendere nessuno dei due. In questo senso, avevo più in comune con lui di quanto io non possa avere con qualcuno con cui sono andato a scuola”.
Crede sia sempre possibile trovare un territorio comune, una possibilità di dialogo?
“Penso che le persone abbiano in comune molto più di quanto non abbiano a separarli e credo che fondamentalmente questo sia il ruolo dell’arte: l’arte, tutta l’arte, è un atto di empatia, sentire quello che sente qualcun altro e riuscire a trasmetterlo attraverso l’opera d’arte”.
La scrittura, per lei, significa anche questo.
“Certamente: io provavo qualcosa mentre scrivevo la storia di Haris e, se ho fatto bene il mio lavoro, quell’emozione deve arrivare anche al lettore in un altro paese. Questo trasferire le mie emozioni a un’altra persona penso che sia un’atto estremamente ottimista, perché asserisce la nostra umanità condivisa”.
Fonte: www.illibraio.it
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