“La tristezza ha il sonno leggero”: torna Lorenzo Marone (e incontra su FB i lettori)

Redazione Il Libraio | 08.03.2016

Dopo gli apprezzamenti di pubblico e critica per il suo esordio ("La tentazione di essere felici"), Lorenzo Marone torna con un nuovo romanzo - Su ilLibraio.it i primi due capitoli de "La tristezza ha il sonno leggero"


Erri Gargiulo ha due padri, una madre e mezzo e svariati fratelli. È uno di quei figli cresciuti un po’ qua e un po’ là, in bilico tra due famiglie e ancora in cerca di se stesso. Sulla soglia dei quarant’anni è un uomo fragile e ironico, arguto ma incapace di scegliere e di imporsi, così trattenuto che nella sua vita, attraversata in punta di piedi, Erri non esprime mai le sue emozioni ma le ricaccia nello stomaco, somatizzando tutto. Finché un giorno la moglie Matilde, con cui ha cercato per anni di avere un bambino, lo lascia. Da quel momento Erri non avrà più scuse per rimandare l’appuntamento con il suo destino.
Circondato da un carosello di personaggi mai banali, Erri deciderà di affrontare, una per una, le piccole e grandi sfide a cui si è sempre sottratto. Imparerà così che per essere felici dobbiamo essere pronti a liberarci del nostro passato, capire che noi non siamo quello che abbiamo vissuto e che, se non vogliamo vivere una vita che non ci appartiene, a volte è indispensabile ribellarci. Anche a chi ci ama. Sarà pronto, ora, a prendere la decisione più difficile della sua esistenza?

Dopo gli apprezzamenti di pubblico e critica per il suo esordio (La tentazione di essere felici), Lorenzo Marone (napoletano, classe ’74), torna con un nuovo romanzo, sempre pubblicato da Longanesi.

 

L’APPUNTAMENTO SU FACEBOOK – Mercoledì 16 marzo, dalle ore 15 alle 16, lo scrittore torna a dialogare con i lettori attraverso la pagina Facebook de ilLibraio.it: per un’ora risponderà alle domande, in diretta.

 

Su ilLibraio.it i primi due capitoli da La tristezza ha il sonno leggero:

Qualcosa di buono

Si dice che il carattere di una persona si formi nei primissimi anni di vita. Sono i primi anni che influenzano tutto il resto. Una bella fregatura. Perché basta che per un motivo o per l’altro quel periodo non vada per il verso giusto, che sei rovinato per sempre. Hai voglia ad andare a cercare cos’è stato a farti diventare come sei, qual è l’avvenimento che a un certo punto ti ha fatto deviare dal percorso. Col tempo, il fatidico istante si perde nei meandri della memoria e diventa quasi impossibile recuperarlo.

Per gli altri, forse. Non per me. Ero nel corridoio di casa, da un lato mia madre e dal lato opposto mio padre. La crisi dei miei durava da sempre, ma quella sera esplose con tutta la sua forza e lo tsunami fu devastante. A papà toccò il divano, a me, invece, la scelta. Che non era da chi dei due farmi portare a letto, ma a chi dei due voltare le spalle.

Mentre piangevo loro mi dicevano di stare tranquillo, che non era successo nulla, ma io sapevo che non poteva essere così; se a cinque anni ti trovi a dover scegliere fra tua madre e tuo padre non può essere tutto a posto.

In quel momento avrei dovuto prendere la prima decisione importante della mia vita, invece mi accovacciai con le spalle al muro e chiusi gli occhi, in attesa che uno dei due venisse a recuperarmi, mentre lo stomaco gorgogliava.

Sono passati trentacinque anni e il povero organo non ha ancora smesso di farsi sentire, di reclamare qualcosa di buono con cui nutrirsi davvero.

Come un opossum

Un anno fa mia moglie Matilde tornò dal lavoro e mi si piazzò davanti. Io ero al computer e le rivolsi solo un rapido cenno del capo. «Erri» disse lei una prima volta con voce glaciale.

«Solo un attimo» risposi e tornai allo schermo. L’indomani avevo un appuntamento importante in ufficio.

«Erri…»

Sollevai la mano con l’indice puntato in aria, come a chiedere un istante ancora di pazienza, solo che a lei il gesto non piacque per nulla e mi ritrovai con il mio povero dito stretto fra le sue fauci.

Mia moglie mi stava mordendo! Mi girai, e mi sarei lasciato andare a un urlo di sorpresa e dolore se non avessi incontrato i suoi occhi furenti. Fu in quell’istante, con una mano nella sua bocca, che capii la terribile verità: Matilde mi odiava.

Il suo sguardo carico di rabbia ancora mi perseguita, ancora, a distanza di un anno, ha la forza di farmi tornare ai due occhi spietati di mia madre quando mi chiudeva in un angolo e con il mestolo disegnava parabole destinate a infrangersi sul mio avambraccio proteso a proteggermi. Solo che io ero troppo veloce e lei troppo lenta, e così gran parte delle traiettorie si frantumava sul muro alle mie spalle o nel vuoto, accrescendo a dismisura il livello di odio tangibile nel suo sguardo. Per fortuna, a un certo punto io sono diventato adulto e mia madre anziana, e quello sguardo è sparito dalla mia vita e dai miei ricordi. Almeno fino all’anno scorso, finché Matilde non mi ha serrato l’indice fra i denti.

Comunque, gli anni trascorsi a fuggire dall’ira inconsulta di mia madre mi avevano addestrato, e la reazione fu repentina: ritrassi la mano con uno strappo veloce e indietreggiai verso il muro, proteggendomi con il braccio disteso. Matilde, però, non mi seguì come faceva mamma. Rimase a fissarmi da lontano. Quando sollevai gli occhi, incrociai il suo volto impiastricciato: la matita sciolta in una lacrima che le macchiava la guancia, i capelli arruffati e il rossetto sbavato.

Avrei dovuto dire qualcosa, qualunque cosa potesse spezzare quel silenzio nauseante, invece rimasi zitto. Come sempre.

Fu lei a parlare. «Almeno adesso mi starai a sentire.»

Mi accarezzai la pelle dell’indice ancora marchiata dai suoi incisivi e tornai a guardarla. Aveva ottenuto la mia completa attenzione.

«Mi scopo Ghezzi» disse, senza alcuna sfumatura nella voce.

Silenzio.

«Ghezzi? Quel Ghezzi? Il responsabile marketing? Ma non ha sessant’anni?» furono le uniche domande che mi uscirono.

C’erano non so quanti perché da chiedere che saremmo potuti rimanere lì una settimana, come il predatore che deve stanare la sua preda. Invece con una raffica di interrogativi idioti ero riuscito a zittire tutti quelli intelligenti che pure mi roteavano nello stomaco, e tutte le possibili risposte di mia moglie.

«Hai capito cosa ti ho detto? Mi scopo un altro.»

Ma io non avevo la forza di parlare, non avevo il coraggio di scegliere di sapere. Così, lei proseguì: «Sono due mesi che me lo scopo».

Aveva ripetuto «scopo» per tre volte in un minuto, lei che nei quindici precedenti anni di amoreggiamenti si era servita del verbo «scopare» una sola volta, al culmine di uno dei nostri rapporti «mirati», come li chiamavano i medici.

Per svariati anni i rapporti mirati hanno minato la nostra vita sessuale, seppellendo il desiderio di entrambi. In sostanza, a decidere quando dovevamo «scopare» era il suo ginecologo, che si divertiva a trovare gli orari e le situazioni più allucinanti, come la volta in cui dovetti raggiungere l’erezione nel bagno del Frecciarossa perché Matilde era in ovulazione e per arrivare a Napoli mancavano ancora quattro ore. Quando mi andava bene, invece, lei telefonava in ufficio e io correvo a casa, mi allentavo la cravatta, mi calavo i pantaloni e mi avvicinavo a lei che il più delle volte si faceva trovare già sul tavolo della cucina. E fu proprio in una di queste occasioni che Matilde si lasciò andare all’urlo in questione, un urlo continuato, disumano, liberatorio e animalesco, che mi pregava di scoparla senza sosta, come un opossum.

Mi sono spesso domandato se l’opossum sia un grande amatore o un fedele servitore.

Ma torniamo a quella sera. Restammo a guardarci per un tempo che mi parve infinito, poi Matilde si sfilò gonna, slip, maglietta e reggiseno, e rimase nuda davanti a me. Ero così inebetito da anni di rapporti mirati che mi venne da chiederle un’unica cosa.

«Stai ovulando?»

Lei socchiuse gli occhi e si lasciò vincere da una smorfia di disgusto, quindi si voltò e, senza dire una parola, si avviò in bagno. Mentre sentivo il getto dell’acqua che, immagino, le cancellava la saliva bavosa di Ghezzi dalla pelle e fissavo i suoi indumenti sparsi per terra, avrei potuto fare diverse cose: correre in bagno e urlarle il mio rancore. Oppure, avrei potuto afferrare la valigia da sopra l’armadio e riempirla delle poche cose che mi sarebbero servite per la notte. Meglio ancora, avrei potuto farle trovare la valigia già pronta e invitarla ad andarsene per sempre.

Invece, mi accovacciai con le spalle al muro e attesi ancora una volta che fosse qualcun altro a decidere della mia vita.

(continua in libreria…)

Fonte: www.illibraio.it

  • Commenti