“L’antidoto” di Vera Gheno: “Non abbiate sempre ansia di dire la vostra”

Alessia Liparoti | 03.10.2023

"Il comportamento che è più urgente disinnescare? L’ansia di dover sempre dire la propria. Quindi l’antidoto più forte è il silenzio, che non è il silenzio degli intelligenti che lascia spazio a chi urla, ma l’abituarsi all’idea che le parole hanno più pregnanza e più significato se sono intervallate da silenzi...”. Abbiamo intervistato Vera Gheno in occasione dell'uscita del saggio "L'antidoto", prontuario per disinnescare i cattivi comportamenti in cui tutti cadiamo quando usiamo i social network. Per la sociolinguista "bisogna creare anticorpi contro le storture dei mezzi di comunicazione di massa. Anche l’indignazione, di cui la comunicazione social è piena, non ha senso". Tanti i temi affrontati, dal "collasso del contesto" alle fake news, passando per le responsabilità dei mezzi di comunicazione ai troll


Vera Gheno è tornata in libreria e a parlare di comunicazione, parole e digitale con L’antidoto (Longanesi), un compendio che affronta i 15 peggiori comportamenti che vengono messi in atto in rete.

Abitudini e automatismi in cui tutti possiamo cadere, in parte per ignoranza, in parte per impulsività, in parte per un’errata comprensione del contesto in cui si sta svolgendo una determinata conversazione online.

Come approfondisce nell’intervista rilasciata a ilLibraio.it, Gheno  si rivolge ai singoli per parlare di problematiche che investono la collettività. In un mondo in cui non possiamo più permetterci di differenziare “online” e “vita reale”, ma dovremmo invece iniziare a pensare al flusso in cui comunichiamo come “onlife”, sulla scorta del filosofo Luciano Floridi, diventa sempre più importante pensarsi come cittadini della rete e individuare quelle disfunzioni comunicative che si riflettono dal web alla vita reale, dal privato al pubblico, in un continuo gioco di specchi che influenza la nostra quotidianità più di quanto siamo abituati a pensare.

Nel primo capitolo di L’antidoto si fa riferimento a un fenomeno specifico, il “collasso del contesto”, fondamentale in tutto il libro. Vera Gheno, possiamo approfondirlo?
“Gli esseri umani sono programmati per comunicare in contesti definiti: prima impariamo a comunicare in famiglia, poi con gli amici; a scuola scopriamo il contesto extra-familiare ed extra-amicale e, dopo ancora, incontriamo quello del lavoro. Con i social media questi contesti si affastellano l’uno sull’altro”.

Con quali effetti?
“I muri che li separano crollano, il privato diventa pubblico, il personale professionale e viceversa. La conseguenza è che la maggior parte delle persone non ha una percezione piena e completa di cosa sta facendo quando comunica sui social. Il collasso del contesto si riferisce prima di tutto a questo, ma anche alla facilissima riproducibilità dei messaggi che diffondiamo tramite le piattaforme digitali, per cui anche la divisione tra un canale di comunicazione e l’altro è molto fragile”.

A proposito di riproducibilità, questo aspetto si lega a un altro problema, quello delle fake news. A prescindere dall’importanza e dalla gravità della singola notizia, nascono spesso da un medesimo meccanismo: la comunicazione impulsiva di una notizia non verificata.
“Anche questo si lega al collasso del contesto, perché la diffusione o meno di una notizia comporta il capire dove o in che ambito può avere rilevanza. Nella velocità di condivisione, nella rincorsa al like e alle condivisioni, viene tutto equiparato. Nel momento in cui la storia marginale di un gattino ha la stesso spazio mediatico di un notizia più importante, per esempio l’arresto di Donald Trump, stiamo assistendo a un problema di contestualizzazione. Mi sembra ci sia in generale grande difficoltà a distinguere tra cose rilevanti, che quindi vanno condivise, e cose che, invece, non è il caso di diffondere. Non possiamo però aspettarci che gli utenti siano preparati. Le persone, anche quelle più giovani, non hanno necessariamente gli strumenti per fare valutazioni sul corretto utilizzo dei social, non è una competenza innata”. 

Queste pratiche, però, non riguardano solo i privati cittadini, ma anche le testate giornalistiche.
“Penso che i mezzi di comunicazione di massa abbiano una grande responsabilità in questo senso, perché ricercano compulsivamente i like, la viralità, e spesso lo fanno condividendo anche notizie che non andrebbero condivise – o che andrebbero verificate e approfondite – disinteressandosi delle conseguenze. Quando sull’homepage di un quotidiano troviamo sia il video esclusivo di un terribile incidente, sia immediatamente accanto la pubblicità di una pizza, siamo distolti dalla gravità di quello che stiamo guardando. In questo modo i mass media contribuiscono all’anestetizzazione collettiva della sensibilità in nome dei clic e del guadagno ricavato dalle inserzioni pubblicitarie”.

L’antidoto è rivolto al singolo individuo, ma i problemi che identifica sono endemici alla rete.
“Non faccio mai grande distinzione tra singolo e collettività, perché penso che l’essere umano sia per definizione un animale sociale e che i comportamenti della collettività siano la somma di quelli dei singoli. L’umanità si estrinseca nello stare all’interno della società: ‘nessun uomo è un’isola’ scriveva John Donne. Di conseguenza, riporto sempre all’individuo la responsabilità del benessere della collettività: in molti si lamentano dei social media e dei mezzi di comunicazione di massa alterizzandoli, ma questa è una deresponsabilizzazione. Credo che l’azione più dirompente che può fare la singola persona sia cambiare il proprio comportamento in modo, piano piano, che questo si rifletta su quello collettivo. Bisogna creare anticorpi contro le storture dei mezzi di comunicazione di massa. Anche l’indignazione, di cui la comunicazione social è piena, non ha senso. Ogni giorno c’è un motivo diverso per indignarsi, ma è un modello di comunicazione, per quanto intenso, anche molto breve: un giorno ci si indigna per una cosa e il giorno dopo quella cosa viene dimenticata per lasciar spazio a un’altra. Invece, si può scegliere il silenzio: se, ogni tanto, facessimo tutti una sorta di ‘dieta del giudizio’, di fasting del giudizio, credo che il volume della discussione e dell’indignazione, in rete ma anche fuori, si ridurrebbe molto”.

Non c’è il rischio che questa “moltitudine silenziosa”, come la chiama nel libro, non faccia poi emergere chi urla e sgomita per avere spazio?
“La confusione ha sempre più visibilità e sembra sempre più consistente di quanto non sia in realtà. Ma quale può essere la strada? Urlare più forte? La gara delle urla non porta da nessuna parte se non all’impossibilità di comunicazione e ascolto reciproco. Magari la mia è una visione utopica, ma credo nell’educazione a una comunicazione più sobria. All’inizio chi urla emergerà di più, ma a poco a poco si può creare una sorta di riprovazione nei confronti dell’aggressività verbale per cui chi urla, isolato, penserà di stare facendo la figura dello stupido. Molto spesso nella società è la riprovazione dei pari a contare davvero e ha più effetto di qualsiasi richiamo a una morale superiore. Può sembrare estremo da dire, ma l’idea di fare una figuraccia ha molto più potere dell’idea astratta del contegno o dell’educazione”.

E cosa spinge, secondo lei, le persone all’aggressione verbale in rete?
“Alla base penso ci sia una grande paura. Del resto questo momento storico non è dei più tranquilli: guerre, carestie, migrazioni, la catastrofe ecologica… È comprensibile sentirsi impauriti, avere la sensazione di stare per perdere qualcosa. Ma invece di lavorare insieme per superare questi ostacoli, è molto più facile dare la colpa agli altri. È il modello dell’othering, ossia dell’identificare altre persone come colpevoli della situazione in cui ci troviamo, autoassolvendoci”.

La deumanizzazione, in particolare nel caso di personaggi più conosciuti, è alla base di molti comportamenti in rete ed è un altro aspetto trattato nel libro.
“Si tratta sempre di mancanza di contesto. Tutto viene messo sullo stesso livello, per cui io, a seconda dei casi, posso venire interpellata come se fossi una parente o come se non fossi una persona reale, e tra questi due poli estremi non c’è alcuna differenza. Se per un verso ripongo sulla persona che seguo aspettative vicine a determinati modelli, per esempio quello femminista, da un altro punto di vista i social mi danno la sensazione di poter dialogare alla pari, senza che in realtà ci si conosca davvero. È una delle tante stranezze della comunicazione online, ma anche questo è dovuto a una mancata contestualizzazione del tipo di rapporto che si crea”.

Nel capitolo dedicato alla comprensione del testo sottolinea come la rete consenta a persone molto diverse tra loro di entrare in contatto. Quella che potrebbe essere una grande apertura all’altro e una grande democratizzazione del dibattito, però, si risolve spesso in una crisi comunicativa.
“Garantire l’accesso a una mole enorme di dati e informazioni non implica che poi le singole persone siano effettivamente in grado di gestirlo, questo accesso. In quanti sanno effettivamente come funziona un motore di ricerca e che non è detto che i primi risultati siano anche i migliori? In quanti sanno del ‘pregiudizio di conferma’, per cui se cerco e trovo un link che conferma una mia idea, per quanto assurda, sceglierò proprio di fare riferimento a quella fonte lì? Non bastano le chiavi per la conoscenza, servono anche gli strumenti per gestirla. Non è sufficiente fare ore di educazione digitale a scuola, o una singola lezione su fenomeni come il cyberbullismo”.

E cosa serve?
“Bisogna usare il digitale come metodo trasversale, insegnare a usare Google, a distinguere tra una notizia vera e una falsa, a integrare gli strumenti del digitale nella propria quotidianità. E se non è la scuola a insegnarlo, chi dovrebbe farlo? Io sono online dal 1995, sono ormai una vecchia cittadina della rete, e ho avuto la fortuna di assistere al passaggio dall’analogico al digitale, imparando così a gestirlo. Ho condiviso l’idea che la rete portasse con sé una maggiore democratizzazione, ma quello che ci dimentichiamo spesso è che partecipare alla democrazia è faticoso. La democrazia richiede un ruolo attivo da parte delle persone, che non è semplicemente esercitare il voto, ma anche partecipare alla cosa pubblica”.

Quale può essere l’antidoto a questa crisi comunicativa?
“Educare alla complessità. E questo passa anche dalla complessità linguistica: Tullio De Mauro, nel 1975 nelle Dieci tesi per un’educazione linguistica democratica diceva che la nostra scuola insegna le regole della lingua, ma dovrebbe insegnare anche la complessità della conoscenza linguistica, l’adattamento al contesto, la creatività. Si dovrebbe impostare l’insegnamento della lingua in maniera trasversale a tutte le materie, che vengono sempre comunicate tramite la lingua”.

Che evoluzione le sembra ci sia stata nella comunicazione online da quando ha iniziato a muoversi nella rete? In particolare parlando di interazioni aggressive.
“I flamer e i troll sono sempre esistiti, ma prima la rete era una cosa d’élite. Non voglio dire che si stesse meglio quando si era meno, però è indubbio che, con più difficoltà e ‘paletti all’ingresso’ per poter arrivare a comunicare online, la maggior parte delle persone non sprecavano questa possibilità. Era ritenuta una cosa importante, quindi per quanto fosse normale che ci fossero dei litigi, si sfogava comunque meno la propria frustrazione. Era difficile che in un gruppo in cui si discuteva di un certo tema si arrivasse ai livelli di cattiveria gratuita che vediamo oggi sui social. Poi – parlo degli anni Novanta – c’erano newsgroup dedicati ai flame, quindi chi voleva litigare sapeva quali erano i recinti, le fosse dei leoni dove andare a farlo. Questo aspetto, secondo me, è la conseguenza del fatto che oggi tutte, tutti, tutt* possono andare in rete senza alcun tipo di competenza a monte, né tecnologica, né comunicativa, quindi l’aggressività che troviamo in rete riproduce quella che troviamo nel mondo reale. Alla fine, se ci guardiamo intorno, per strada, c’è molta tensione, come dicevo prima, c’è molta paura. E questo crea un’attitudine generale negativa nei confronti del prossimo. In Italia in questo momento vedo un solipsismo generalizzato, che si riflette sia nell’offline che nell’online. Come dice Luciano Floridi, ormai dobbiamo parlare di ‘onlife’, non si può più perpetuare questo grande fraintendimento di parlare o di ‘online’ o di ‘vita reale’, perché ormai le cose non sono più separate”.

E in Vera Gheno, come utente, che evoluzione c’è stata?
“La mia storia è un po’ particolare, perché sono diventata un personaggio pubblico. Non è una cosa che dieci anni fa mi sarei immaginata, e per fortuna è successo molto lentamente, non da un momento all’altro. Ci sono arrivata in maniera progressiva, e questo ha comportato dei cambiamenti anche nel modo in cui uso i social, perché c’è una parte della mia vita che voglio resti privata e che quindi preservo ed evito di condividere. Mi rendo conto che non c’è una vera distanza tra privato e pubblico, personale e professionale, quindi cerco di circoscrivere con attenzione quello che mostro di me. A parte questo non ho nessun tipo di strategia rispetto allo stare online, non uso i social per guadagnare, non faccio sponsorizzate: questo fa sì che possa continuare a gestire i social come mezzo per condividere notizie e informazioni”.

Dei 15 comportamenti di cui si parla nel libro, qual è il più importante da disinnescare?
“L’ansia di dover sempre dire la propria. Quindi l’antidoto più forte è il silenzio, che non è il silenzio degli intelligenti che lascia spazio a chi urla, ma l’abituarsi all’idea che le parole hanno più pregnanza e più significato se sono intervallate da silenzi. Questo lo diceva un grande sociolinguista, Giorgio Cardona: gli spazi tra le parole servono per dare visibilità alle parole stesse. Quindi i silenzi, anche quando siamo online, servono per dare maggiore forza quello che decidiamo di dire quando parliamo”.

Fonte: www.illibraio.it

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