“Tempo di uccidere” di Ennio Flaiano: una storia editoriale

Redazione Il Libraio | 04.06.2018

Da Giuseppe Berto a Curzio Malaparte, passando per Vitalino Brancati e molti altri, nel saggio "Visto si stampi - Nove vicende editoriali" Gabriele Sabatini racconta le storie dell’esordio, nei primi anni del dopoguerra, di otto libri che faranno di lì a poco la storia della letteratura italiana e della nascita della casa editrice Longanesi - Su ilLibraio.it il capitolo dedicato a "Tempo di uccidere" di Ennio Flaiano


“Gabriele Sabatini, che di libri se ne intende perché anche se giovane molto altro non ha fatto e fa nella vita, ha raccolto un mazzetto di queste storie, tutte per altro esemplari di un modo diverso per avvicinarsi ai libri imparando a leggere forti di una quantità di informazioni che normalmente si trascurano: è il suo un esercizio non solo divertente ma anche assai utile, perché se il buon giorno si vede dal mattino anche i libri rivelano la propria natura prima ancora di aver preso definitivamente forma”, scrive Cesare De Michelis nella prefazione a
Visto si stampi – Nove vicende editoriali (ItaloSvevo) di Gabriele Sabatini, che nel saggio racconta le storie dell’esordio, nei primi anni del dopoguerra, di otto libri che faranno di lì a poco la storia della letteratura italiana e della nascita della casa editrice Longanesi.

Curzio Malaparte, Vitalino Brancati, Vasco Pratolini, Piero Chiara, Ennio Flaiano, Rigoni Stern, Giuseppe Berto, Carlo Cassola, Vittorini e Leo Longanesi sono i protagonisti di un libro ricco di aneddoti e spunti sulla storia editoriale dell’immediato dopoguerra.

Sabatini (Roma, 1983) lavora come editor alla Carocci editore, fa parte della redazione di Flanerí, collabora con doppiozero e Rai Radio 3.

visto si stampi

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo

Non facciamo un giardino zoologico. Tempo di uccidere di Ennio Flaiano

Il dattiloscritto del romanzo che Leo Longa­nesi ricevette da Ennio Flaiano nel marzo del 1947 si intitolava Il coccodrillo, animale emble­ma di un momento fondamentale della trama. Emblematiche erano pure altre ipotesi di titolo volute dall’autore: Il dente e La scorciatoia. Ep­pure, tutte quelle proposte non convincevano, soprattutto Il coccodrillo. L’editore aveva infat­ti già pubblicato La vita del camaleonte di Fer­nand Angel e Parliamo dell’elefante dello stesso Longanesi, il quale allora chiese a Flaiano di ripensarci: altrimenti «facciamo un giardino zoologico». Ventiquattro ore dopo, il nuovo ti­tolo: Tempo di uccidere. «Un po’ troppo allusivo e letterario per un libro che è invece chiaro e senza letteratura», scriveva Enrico Emanuelli su L’Europeo.

È la storia di un tenente dell’esercito italiano in Abissinia, durante la campagna del 1936; un’Africa «di cartapesta» che da subito assume contorni fantastici e simbolici. Snodo principa­le, l’incontro e il conseguente rapporto intimo con una ragazza indigena che il protagonista ucciderà per errore. Da quel momento, e dal­la scoperta che il turbante da lei indossato è il possibile segno di distinzione dei lebbrosi, il te­nente comincia una serie di peregrinazioni in quell’angolo remoto di mondo, roso dal dub­bio di essere stato denunciato per l’omicidio e di aver contratto la malattia.

Flaiano, ufficiale in Etiopia lo era stato vera­mente, ma rivolge la sua critica alla guerra la­sciando i fatti bellici sullo sfondo. Nessun eroi­smo, semmai il cinismo di un’avventura senza senso, macchiata per questo di responsabilità orribili che si trasmettono al protagonista at­traverso l’uccisione della ragazza. L’autore «ha messo nel bel mezzo del dramma il suo pro­tagonista e gli ha addossato ogni colpa, e non sono soltanto colpe private», dirà Leone Pic­cioni alla morte dello scrittore.

Tempo di uccidere è un unicum in una carrie­ra fatta di testi brevi quando non aforistici, di articoli, elzeviri, collaborazioni cinematografi­che. Non verrà mai un secondo romanzo, seb­bene Longanesi non mancasse di sollecitarlo. Fu però proprio per l’editore milanese che nacque quest’opera. Sostanzialmente coetanei, Flaiano provava per l’amico un sincero affetto venato di riverenza: «Pensare di deludere Lon­ganesi mi era abbastanza insopportabile, per­ché la sua fiducia serviva a scoprire le nostre qualità e a metterle in moto, una fiducia che non bisognava deludere».

È l’autore stesso a ri­cordare la circostanza in cui si assunse l’impe­gno di scrivere: «Passeggiavamo cortesemente, una sera di dicembre [1946], quando si fermò e mi disse: “Mi scrive un romanzo per i primi di marzo?”. Io scoppiai a ridere, ma lui diceva sul serio. I suoi occhi vivi e lucidi, sempre pieni di simpatia e di indignazione, mi fissavano con sorpresa. Quando ebbi detto (per dire qualco­sa) come vedevo un romanzo, una storia asso­lutamente fantastica, tanto fantastica che non la immaginavo in Italia, ma in Africa, nell’A­frica di Erodoto e Solino, Longanesi disse: “Se comincia subito le do un anticipo”».

E in tre mesi il romanzo era pronto. Una rapida realizzazione, la consegna era stata infatti fissata entro il 12 marzo, «perché il 13 abbiamo il tur­no presso il linotipista», ricordava in una lettera l’editore, che in una successiva proclamava: «Le sue correzioni, purtroppo, non siamo riusciti a farle perché il libro è già stampato». La tiratu­ra viene ultimata in tipografia il 30 aprile 1947. Rapida esecuzione, dunque, ma per un altro amico di Flaiano, il giornalista di Avanti! Um­berto De Franciscis, la vicenda narrata era in nuce già da molto tempo: Dominato da quella pigrizia che è poi rispetto per la letteratura, Fla­iano […] ha tardato dieci anni ad affrontare il romanzo. […] Tipica opera di pigro, sognata e limata, prima di essere scritta di getto e inca­strata nella cornice del racconto».

Deus ex machina di tutta questa storia è, anco­ra una volta, l’editore, che insiste nel voler far partecipare il libro al Premio Strega per «bat­tere Moravia». Già, lo Strega. Quella del 1947 è la prima edizione, e Tempo di uccidere si impo­ne superando largamente gli altri concorrenti. Alberto Moravia ritirò il suo La romana prima delle votazioni finali: «Donna che è savia non vota Moravia», recitava uno dei molti cartelli elettorali affissi a casa Bellonci. Oppure anco­ra, nella cronaca di Paolo Monelli: «Chi ha sof­ferto nel ventennio darà il voto solo a Ennio»; «Riempi il bicchier che è vòto, vòta il bicchier che è pieno, ma non votar per Longanesi, che è pieno di veleno».

Le recensioni comparse sulla stampa nei mesi successivi all’uscita non furono però entusiasti­che. Nel luglio del ’47, Giuseppe Gironda su La Voce Repubblicana non disdegna di mettere sull’avviso i lettori di una possibile delusione: le ultime pagine del romanzo secondo lui sono una «specie di elementare spiegazione […] che toglie proprio alla fine molto di quel fa­scino che nasceva dalla vicenda nella sua inde­terminatezza e ambiguità».

Ambiguità e inde­terminatezza messe a nudo nello stesso torno di tempo da Giacomo Debenedetti – su l’Unità – il quale giudica severamente l’autore per aver perso padronanza del personaggio principale: «Prima Flaiano aveva seguito il suo inquietan­te protagonista come si sorveglia un sonnam­bulo sul cornicione, soffrendo le vertigini per lui. […] In un romanzo come Tempo di uccidere bisogna che l’autore rimanga fino all’ultimo infettato dal personaggio: è la sola maniera di partecipare alla sua avventura e di far parteci­pare chi legge. Flaiano, viceversa, conduce lo sperduto e ignaro tenente attraverso un labi­rinto di cui egli conosce le giravolte, le cattive e le buone strade, gli ingannevoli incroci e le uscite. [Ma] ha dovuto scrivere un ultimo capi­tolo per chiudere i buchi che le troppe combi­nazioni, simmetrie, coincidenze, avevano finito con l’aprire. Che sarebbe come, per un cultore di enigmistica, ricorrere alla rubrica: soluzione del gioco precedente». Ancora, Francesco Jovi­ne in La Fiera Letteraria insiste sull’incubo in cui la narrazione trasporta per poi dissolversi d’un colpo: «Il romanzo decade nel divertimento […] facendo torto all’impegno morale e este­tico che aveva tutelato la maggior parte delle sue pagine».

Non solo la conclusione, per i recensori del 1947 anche il personaggio del tenente ha molti limiti. Icilio Petrone su Momento, sebbene noti che nel quadro doloroso del romanzo italiano Tempo di uccidere si distacca «per la sua ecce­zionale potenza, [essendo] un libro terribile, cerebrale, amaro, ma non falso», reputa il pro­tagonista un personaggio mediocre, in mezzo agli altri invece vividissimi: «Non è abbastanza bestiale per essere un bruto, né abbastanza umano o debole per essere un delinquente, né mai così obiettivo da essere un uomo».

Luci e ombre, dunque. Vittoria schiacciante e critica severa. Saranno i critici degli anni suc­cessivi a prendere le difese del romanzo. Fra tutti spicca Moravia, colui che doveva essere – ed era stato – battuto. Nel 1956, in seguito all’uscita di Diario notturno, scriveva infatti su Il Mondo: «Tempo di uccidere aveva pregi di viva at­tualità e di acutezza psicologica e concettuale che la critica italiana, più sensibile ai valori for­mali che a quelli sostanziali, trascurò di sotto­lineare», ossia era assimilabile, in parte, a quei volumi fatti di realismo coraggioso, dubbio e angoscia, e che mostrerebbe punti di contatto con Lo straniero di Camus, per esempio.

Ma quel che del romanzo sopravvive, al di là di un ultimo capitolo dallo stile didascalico, è ciò che poi verrà ampiamente rilevato, ossia il ruolo che in tutta questa vicenda ha il caso. Nessuno infatti ha denunciato il tenente per il suo reato e per gli altri fatti commessi succes­sivamente; egli non è ricercato come credeva di essere, come l’immagine che s’era fatta del suo futuro avrebbe preteso. Formalmente non pagherà per le sue azioni e i conti dovrà farli solo dentro di sé.

E poi, sopravvive la lebbra. E il dubbio che il te­nente possa averla davvero contratta, perché – sebbene le piaghe comparse sul suo corpo non fossero di quella malattia e fossero ormai guari­te – essa «per manifestarsi, richiede a volte dieci o vent’anni». È dunque il grumo che ci portia­mo dentro. O, per dirla con le parole dello stes­so Flaiano, «forse non si tratta più di lebbra, si tratta di un male più sottile e invincibile ancora, quello che ci procuriamo quando l’esperienza ci porta cioè a scoprire quello che noi siamo ve­ramente. Io credo che questo sia non soltanto drammatico, ma addirittura tragico».

[nota: il presente capitolo è apparso originariamente su doppiozero.com]

Fonte: www.illibraio.it

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