"Erano anni che non ridevo tanto per un film, erano anni che non mi si spezzava così il cuore". Lo scrittore Fabiano Massimi, in libreria con il romanzo "L’angelo di Monaco", ha visto per ilLibraio.it "Jojo rabbit", il film scritto, diretto e interpretato da Taika Waititi
Erano anni che non ridevo tanto per un film, erano anni che non mi si spezzava così il cuore.
Johannes Betzler detto Jojo ha dieci anni e vive in Germania nel momento peggiore della Storia: l’estate del 1944, quando la blitzkrieg scatenata dall’espansionismo nazista sta registrando le ultime, sanguinose battute. Ormai è chiaro che l’avanzata degli Alleati è inarrestabile, che gli americani e i russi hanno ribaltato le sorti della guerra e molto presto la riporteranno in casa del Führer. Il Reich millenario ha i giorni contati, ma questo il piccolo Jojo non può saperlo: imbevuto della stentorea propaganda di Goebbels si appresta con orgoglio a diventare un uomo nel campo estivo della gioventù hitleriana. E non importa se è il più minuto, il più fragile, il più improbabile del branco: lui può contare sul sostegno e sui consigli del miglior amico immaginario possibile, Adolf Hitler.
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Liberamente ispirato a un bel romanzo di Christine Leunens (ripubblicato a fine 2019 da SEM con il titolo Il cielo in gabbia), Jojo Rabbit è un incrocio magistrale fra commedia nera e dramma storico, in cui tutto è ricostruito con realismo documentario ma infarcito di battute e gag senza sosta, in un contrappunto costante tra serio e faceto, commovente e demenziale. Un incrocio non inedito – ricordate Train de vie? – ma confezionato in maniera così impeccabile da diventare esemplare. Jojo crede ciecamente ai proclami del regime, sogna di incontrare un ebreo (che riconoscerà dalle corna e dal caratteristico odore di cavoletti di Bruxelles) per poterlo pugnalare con il suo coltellino stondato, e mai per un istante dubita che il sangue germanico di cui va tanto orgoglioso possa proteggerlo da ogni male.
Così, quando il male lo colpisce, l’apprendista nazista rimane più che interdetto, e in assenza di un padre, e non potendo contare su una madre tanto affascinante quanto sfuggente (l’ottima Scarlett Johansson), non gli resta che chiedere conforto al capitano del suo plotone (l’ottimissimo Sam Rockwell) – il quale però ha cose più importanti a cui pensare: le nuove divise da supereroe con cui conta di affrontare i russi, i cloni ariani che devono essere portati a spasso una volta al giorno, le esercitazioni militari in acqua «nel caso dovessimo affrontare il nemico in una piscina»…
Difficile dire altro senza dire troppo – nella trama ci sono colpi di scena degni di un thriller – ma del resto non serve andare oltre il primo quarto d’ora per intuire la ricchezza del film. Il regista e sceneggiatore Taika Waititi, nato in Nuova Zelanda da padre maori e madre di origini russe, irlandesi ed ebraiche, mette in campo un tale meticciato di idee e soluzioni che per coglierle tutte occorre vedere il film più volte, come accade nelle opere di un suo chiaro riferimento, lo stralunato Wes Anderson (e non a caso la parte iniziale di Jojo Rabbit ricorda il campo scout di Moonrise Kingdom, solo con le granate al posto dei bastoncini).
Per fortuna la prima visione è così emozionante e divertente che lo spettatore esce dalla sala con il desiderio di rientrarci subito (o di prenotare il dvd, come ho fatto io). Dai titoli di testa – che mostrano il delirio generale nelle adunate hitleriane mentre i Beatles cantano I Want To Hold Your Hand in tedesco – fino ai titoli di coda – dove David Bowie rischiara le tenebre con Helden, versione berlinese di Heroes – l’impressione è che nessuna sequenza sia lasciata al caso, tra continue citazioni (The Grudge per l’oscura scoperta di JoJo, Helzapoppin’ nella sequenza di guerra) e sottili simbolismi che si addensano scena dopo scena, accumulando in mezzo a tante risate una carica emotiva che diventa devastante sul finale. Dove però il regista non ha cuore di (o forse al contrario ha troppo cuore per) lasciarci in bocca l’amaro del romanzo. E lo so che per alcuni questo abbasserà il valore dell’opera – “consolatoria”, diranno, come se consolare non fosse il più nobile dei fini – ma so anche che a moltissimi trasmetterà grande entusiasmo, e il desiderio di consigliare il film a chiunque: parenti, amici, nemici. Un circolo virtuoso che pochi artisti sanno innescare, e che in presenza di una storia importante non è solo desiderabile, ma necessario.
«Cos’hanno fatto?» chiede Jojo a sua madre di fronte a un gruppo di impiccati.
«Quello che potevano.»
L’AUTORE – Monaco, settembre 1931. Il commissario Sigfried Sauer è chiamato con urgenza in un appartamento signorile di Prinzregentenplatz, dove la ventiduenne Angela Raubal, detta Geli, è stata ritrovata senza vita nella sua stanza chiusa a chiave. Accanto al suo corpo esanime c’è una rivoltella: tutto fa pensare che si tratti di un suicidio.
Geli, però, non è una ragazza qualunque, e l’appartamento in cui viveva ed è morta, così come la rivoltella che ha sparato il colpo fatale, non appartengono a un uomo qualunque: il suo tutore legale è “zio Alf”, noto al resto della Germania come Adolf Hitler, il politico più chiacchierato del momento, in parte anche proprio per quello strano rapporto con la nipote, fonte di indignazione e scandalo sia tra le file dei suoi nemici, sia tra i collaboratori più stretti. Sempre insieme, sempre beati e sorridenti in un’intimità a tratti adolescenziale, le dicerie sul loro conto erano persino aumentate dopo che la bella nipote si era trasferita nell’appartamento del tutore.
Sauer si trova da subito a indagare, stretto tra chi gli ordina di chiudere l’istruttoria entro poche ore e chi invece gli intima di andare a fondo del caso e scoprire la verità, qualsiasi essa sia. Hitler, accorso da Norimberga appena saputa la notizia, conferma di avere un alibi inattaccabile. Anche le deposizioni dei membri della servitù sono tutte perfettamente concordi. Eppure è proprio questa apparente incontrovertibilità dei fatti a far dubitare Sauer, il quale decide di approfondire. Le verità che scoprirà, così oscure da far vacillare ogni sua certezza professionale e personale, lo spingeranno a decisioni dal cui esito potrebbe dipendere il futuro stesso della democrazia in Germania…
Sullo sfondo di una Repubblica di Weimar moribonda, in cui si avvertono tutti i presagi della tragedia nazista, L’angelo di Monaco (Longanesi) è un thriller in equilibrio tra inoppugnabile realtà storica e avvincente finzione, un viaggio all’inseguimento di uno scampolo di verità in grado, forse, di restituire dignità alla prima, vera vittima della propaganda nazista: la giovane e innocente Geli Raubal.
L’autore, Fabiano Massimi è nato a Modena nel 1977. Laureato in Filosofia tra Bologna e Manchester, bibliotecario alla Biblioteca Delfini di Modena, da anni lavora come consulente per alcune tra le maggiori case editrici italiane. L’angelo di Monaco è stato l’esordio italiano più venduto alla Fiera di Londra 2019.
Fonte: www.illibraio.it
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